lunedì 9 luglio 2012

Che cosa cerchiamo? - Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà


Cos'è quel che cerca la maggior parte di noi? Di che cosa ha bisogno ciascuno di noi? Specialmente in questo mondo irrequieto, dove ciascuno cerca di trovare una qualche forma di pace, una qualche forma di felicità, un rifugio, senza dubbio è importante, non è vero? Trovare che cosa si cerchi, che cosa ci si sforzi di scoprire. Probabilmente moltissimi tra noi cercano una qualche forma di felicità, una qualche forma di pace; in un mondo oppresso dall'inquietudine, dalle guerre, dalla competizione, dalla lotta, abbiamo bisogno di un rifugio ove sia un po' di pace. Penso sia questo, ciò che vuole la maggior parte di noi. Così lo perseguiamo, andiamo da una guida all'altra, da un'organizzazione religiosa all'altra, da un maestro all'altro.
Ora, stiamo cercando la felicità, oppure stiamo cercando una remunerazione di qualche tipo, dalla quale contiamo di trarre la felicità? Vi è differenza tra felicità e remunerazione. È possibile cercare la felicità? Forse si può trovare remunerazione; ma certo non è possibile trovare felicità. La felicità è un derivato: è il sottoprodotto di qualche cosa d'altro. Cosí, prima di affidare la mente e il cuore a qualcosa che esige tanto impegno, attenzione, pensiero, tanta accuratezza, dovremo trovare, non è vero? che cosa stiamo cercando: se sia felicità, o remunerazione. Temo che la maggior parte di noi cerchi remunerazione. Abbiamo bisogno di essere remunerati, abbiamo bisogno di trovare, al termine della nostra ricerca, un senso di pienezza.
Dopo tutto, se si cerca la pace la si può trovare molto facilmente. Si può dedicarsi ciecamente ad una causa qualsiasi, a un'idea, e trovarvi un rifugio. Senza dubbio però, ciò non risolve il problema. Il puro isolamento entro "un'idea che ci segreghi in sé, non ci libera dal conflitto. Così dobbiamo trovare, non è forse vero? che cosa, tanto interiormente che esteriormente, sia necessario a ciascuno di noi. Se avremo chiaro ciò, non dovremo andare da nessuna parte, da nessun maestro, da nessuna chiesa, da nessuna organizzazione. Pertanto la nostra difficoltà è aver chiaro, in noi stessi, quale sia la nostra intenzione: non è vero? È possibile averlo chiaro? E questa chiarezza può darcela la ricerca, il tentativo di scoprire che cosa dicano gli altri, dal maestro al predicatore che parla nella chiesa dietro l'angolo? Si deve veramente andare da qualcuno, per trovarla? Eppure è questo, quel che facciamo: non è vero? Leggiamo innumeri libri, partecipiamo a infiniti incontri e discussioni, aderiamo alle più svariate organizzazioni: cercando così di trovare un rimedio alla lotta, alla miseria della nostra vita. Oppure, se non facciamo tutto ciò, pensiamo di aver trovato; vale a dire, affermiamo che un'organizzazione particolare, un particolare maestro, un libro particolare ci soddisfano, in esso abbiamo trovato tutto ciò che ci serve; e in esso rimaniamo, cristallizzati e murati.
Non cerchiamo forse, in tutta questa confusione, qualche cosa di stabile, di permanente, qualche cosa che chiamiamo realtà, Dio, verità, quel che volete? - il nome non importa, senza dubbio la parola non è la cosa. Perciò non facciamoci irretire dalle parole: lasciamolo ai conferenzieri di professione. Vi è, non vero? una ricerca di qualcosa di durevole, in molti di noi: qualcosa cui ci si possa aggrappare; qualcosa che ci dia una fiducia, una speranza, un entusiasmo duraturo, una certezza che resista, perché in noi stessi siamo tanto insicuri. Non conosciamo noi stessi. Sappiamo molto sui fatti, quel che hanno detto i libri; ma,non conosciamo noi stessi, non abbiamo un'esperienza diretta.
E cos'è, ciò che chiamiamo durevole? Cos'è ciò che cerchiamo, che vogliamo, o che contiamo ci dia la durevolezza? Non stiamo cercando una felicità che duri, una ricompensa che duri, una certezza che resti?
Desideriamo qualcosa che duri per sempre, che ci compensi. Se ci spogliamo di tutte le parole e di tutte le frasi, e guardiamo in concreto, è questo, ciò che vogliamo. Vogliamo un piacere durevole, una remunerazione durevole: che chiamiamo verità, Dio, o quel che volete.
Benissimo: vogliamo il piacere. Forse metterla in questo modo è metterla troppo crudamente: ma è questo, che veramente vogliamo: conoscenza che ci dia piacere, esperienza che ci dia piacere, ricompensa che non svanisca 1'indomani. E abbiamo sperimentato diverse ricompense, e sono tutte appassite: e speriamo ora di trovare una ricompensa permanente nella realtà, in Dio. Senza dubbio è questo che tutti noi cerchiamo: intelligenti e sciocchi, teorici e persone qualsiasi che cerchino qualcosa. Esiste una ricompensa durevole? Esiste qualche cosa che durerà?
Ora, se cercate una remunerazione che duri, chiamandola Dio, o verità, o quel che volete - il nome non conta - senza dubbio dovrete comprendere, non è vero? la cosa che cercate. Quando dite "cerco la felicità eterna" - Dio, o la verità, o quel che volete - non dovrete pure intendere quella cosa stessa che cerca, il cercatore stesso? Poiché può darsi che non esista qualcosa come la sicurezza permanente. la felicità eterna. Può darsi che la verità sia qualche cosa di completamente diverso; ed io penso che sia profondamente diversa da ciò che si può vedere, concepire, formulare. Perciò, prima di cercare qualche cosa che duri, non è, ovviamente, necessario comprendere il ricercatore? Il ricercatore è forse diverso da ciò che cerca? Quando dite "cerco la felicità", il ricercatore è forse diverso da ciò che cerca? Il pensatore è diverso dal pensiero? Non sono forse un fenomeno unico, anziché processi separati? Perciò è essenziale, non vi pare? intendere il ricercatore, prima di cercare di scoprire che cosa egli ricerchi.
Siamo così giunti al punto in cui ci domandiamo, con vera serietà e profondità, se la pace, la felicità, la realtà, Dio, o quel che volete, possano esserci dati da qualcun altro. Questa ricerca incessante, quest'ansia, può darci quel senso straordinario di realtà, quel modo creativo di essere, che giunge quando realmente comprendiamo noi stessi? La conoscenza di sé viene attraverso la ricerca, seguendo qualcun altro, appartenendo a qualche organizzazione particolare, leggendo libri e così via? Dopo tutto è questo il problema chiave. non è così?: che, finché non avrò compreso me stesso, non avrò base per il mio pensiero, e tutta la mia ricerca sarà vana. Posso rifugiarmi nelle illusioni, posso sfuggire alla competizione, alla lotta, al conflitto; posso adorare un altro; posso cercare la mia salvezza attraverso qualcun’ altro. Ma finché sarò ignorante su me stesso, finché non sarò consapevole del processo totale di me stesso, non avrò base per pensare, per amare, per agire.
Ma questa è l'ultima cosa che, appunto, vogliamo: conoscere noi stessi. Senza dubbio è l'unico fondamento sul quale possiamo costruire. Ma, prima di poter costruire, prima di poter trasformare, prima di poter condannare o distruggere, dobbiamo conoscere ciò che siamo. Metterci a cercare, a cambiare guide, guru, praticare lo yoga, mormorare preghiere, adempiere ai riti, seguire Maestri e così via, è del tutto inutile: no? Non ha significato, anche se coloro stessi che seguiamo ci dicono "esaminate voi stessi"; perché' ciò che noi siamo, è il mondo. Se siamo meschini, gelosi, vani, cupidi, questo appunto è ciò che creiamo intorno a noi, quésto è la società nella quale viviamo.
A me sembra che, prima di metterci in viaggio per trovare la realtà, per trovare Dio, prima di poter agire, prima di poter avere qualsiasi rapporto l'uno con l'altro, nel che consiste la società, è essenziale cominciare col comprendere noi stessi. Ritengo veramente saggio chi sia assorbito interamente, anzitutto, da questo, e non dal modo di conseguire una meta particolare; perché, se voi ed io non comprenderemo noi stessi, come potremo, agendo, provocare una trasformazione nella società, nei rapporti con gli altri, in qualsiasi cosa facciamo? E ciò non significa, è ovvio, che la conoscenza di sé sia contrapposta, o isolata, rispetto alla relazione con gli altri. Non significa, è ovvio, sottolineare il me, l'individuale, come opposto alla massa, come opposto ad un altro.
Ora, senza conoscere voi stessi, senza conoscere il vostro proprio modo di pensare e la ragione per la quale fate certe cose, senza conoscere il background del vostro proprio condizionamento e i motivi per i quali nutrite certe fedi sull'arte e la religione, sul vostro paese e il vostro vicino e su voi stessi, in qual modo potrete veramente pensare ad una qualsiasi cosa? Se non conoscete il vostro background, se non conoscete la sostanza del vostro pensiero e donde esso provenga, senza dubbio la vostra ricerca è profondamente futile, e la vostra azione non ha alcun significato. Non vi pare? E che siate americano o indù, o quale sia la vostra religione, non ha ugualmente alcun significato.
Prima di poter scoprire qual è lo scopo ultimo della vita, che cosa significhi tutto - guerre, rivalità nazionali, conflitti, tutto questo guazzabuglio - dovremo cominciare da noi stessi: non è forse vero? Suona tanto semplice, ma è estremamente difficile. Per seguire se stessi, per vedere il modo in cui funziona il proprio pensiero, è necessario essere straordinariamente attenti, sempre piú attenti, cosí che, quando si comincia ad essere sempre più attenti ai meandri del proprio modo di pensare, delle proprie reazioni, dei propri sentimenti, si comincia pure a possedere una consapevolezza maggiore non soltanto di se stessi, ma anche di un altro con cui si stia in rapporto. Conoscere se stessi è studiarsi nell'azione, che è relazione. La difficoltà è che siamo troppo impazienti; vogliamo riuscire, vogliamo raggiungere uno scopo, e così non abbiamo né il tempo né l'occasione di concederci l'opportunità di studiare, di osservare. Alternativamente ci siamo dedicati a varie attività - guadagnarci la vita, allevare bambini - oppure abbiamo assunto certe responsabilità nelle più svariate organizzazioni; e ci siamo impegnati in tanti modi diversi, che abbiamo ben poco tempo per riflettere su noi stessi, per osservare, per studiare. Così, in realtà, la responsabilità della reazione dipende da noi stessi, e non da un altro. Ricercare dei guru, ed i loro sistemi, per tutto il mondo, leggere i libri più recenti su questo e su quello, e via discorrendo, a me pare terribilmente vuoto, terribilmente futile: perché potrete girare tutta la terra, ma a voi stessi dovrete ritornare. E, poiché per la maggior parte siamo totalmente inconsapevoli di noi stessi, è estremamente difficile cominciare a vedere chiaramente entro il processo del nostro pensiero, del nostro sentimento, del nostro agire.
Più conosceremo noi stessi, più vi sarà chiarezza. La conoscenza di sé non ha limite: non si raggiunge una meta, non si perviene ad una conclusione. È un fiume che non ha fine. E man mano che lo si studia, man mano che sempre più vi si penetra, si trova pace. Soltanto quando la mente è tranquilla - attraverso la conoscenza di sé, e non mediante un'autodisciplina imposta - soltanto allora, in quella tranquillità, in quel silenzio, potrà venire alla luce la realtà. Soltanto allora vi sarà felicità; vi sarà azione creativa. Ed a me sembra che senza questo intendimento, senza quest'esperienza, limitarsi a legger libri, a partecipare alle conferenze, a fare propaganda, sia del tutto infantile: un puro agire, senza troppo significato; mentre se si giunge a comprendere se stessi, e a raggiungere così quella felicità creativa, quella esperienza concreta di qualche cosa che non appartiene alla mente, allora forse potrà verificarsi una trasformazione nella relazione immediata che ci riguarda e, pertanto, nel mondo in cui viviamo.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

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