martedì 29 novembre 2011

Sul significato della vita - La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti.

Domanda: viviamo, ma non sappiamo perché. Per tanti di noi, sembra che la vita non abbia alcun significato. Ci può dire il significato e lo scopo del vivere?

Krishnamurti: ma perché mi pone questa domanda? Perché mi chiede di dirle il significato della vita, il fine della vita? Che cosa intendiamo per vita? La vita ha un significato, un fine? Il vivere in se stesso non è il proprio stesso fine, il proprio stesso significato? Perché siamo troppo insoddisfatti della nostra vita, perché la nostra vita è troppo vuota, volgare, monotona, perché continuiamo a fare la stessa cosa, per questo vogliamo qualcosa di più, qualcosa che vada oltre quanto stiamo facendo. Essendo tanto vuota, sorda, priva di significato, fastidiosa, intollerabilmente stupida la nostra vita quotidiana, affermiamo che la vita debba avere un significato maggiore, ed ecco perché Lei mi pone questa domanda. Senza dubbio, chi ha una vita ricca, chi vede le cose quali sono ed è appagato di ciò che ha, non è confuso; ha la mente chiara, e pertanto non domanda quale sia lo scopo della vita. Per lui, lo stesso vivere è inizio e fine. La nostra difficoltà è che, essendo la nostra vita tanto vuota, intendiamo trovarle uno scopo e ci battiamo per esso. Un tale scopo della vita può essere puramente intellettuale, senza la minima realtà; quando lo scopo della vita viene perseguito da una mente stupida e sorda, da un cuore vuoto, anche tale fine sarà vuoto. Perciò il nostro scopo è come render ricca la nostra vita, non di denaro e di tutto il resto, ma ricca interiormente: il che non è niente di tanto misterioso. Quando dite che scopo della vita è la felicità, oppure trovare dio, senza dubbio tale desiderio di trovare dio è un’evasione rispetto alla vita, e il vostro dio è semplicemente qualcosa che conoscete. Si può dirigere la propria via soltanto verso un oggetto noto; se si costruisce una scala fino alla cosa che chiamate dio, senza dubbio quello non è dio. La realtà può comprendersi soltanto vivendola, non evadendone. Quando si cerca nella vita uno scopo, in realtà si sta evadendo, e non si comprende che cos’è la vita. La vita è relazione, è azione nella relazione; quando non comprendo la relazione, o quando questa è confusa, cerco un significato più ampio. Perché le nostre vite sono tanto vuote? Perché siamo tanto soli, frustrati? Perché non abbiamo mai guardato entro noi stessi, né compreso noi stessi. Non ammetteremo mai di fronte a noi stessi che questa vita è tutto ciò che conosciamo e che per tanto andrebbe compresa pienamente e completamente. Preferiamo sfuggire a noi stessi, ed ecco perché cerchiamo uno scopo alla vita, distinto dalla relazione. Se cominciamo a comprendere l’azione, cioè la nostra relazione con la gente, col possesso, con le fedi e le idee, troveremo che la relazione ha in se stessa il suo premio. Non dobbiamo cercare. È come cercare l’amore. Cercandolo si può trovare forse l’amore? L’amore non si può coltivare. Troverete l’amore soltanto nella relazione, e non al di fuori, ed è perché non abbiamo amore che cerchiamo uno scopo alla vita. Quando vi è amore, che è la propria stessa eternità, allora non vi è ricerca di dio, poiché l’amore è dio. È perché le nostre menti sono gremite di tecnicismi e di mormorii superstiziosi che le nostre vite sono tanto vuote, ed ecco perché cerchiamo uno scopo al di là di noi stessi. Per trovare lo scopo della vita dobbiamo passare attraverso la porta di noi stessi; consciamente o inconsciamente evitiamo di guardare in faccia le cose quali sono in se stesse, e così esigiamo che dio ci apra una porta, al di là. Questa domanda circa lo scopo della vita viene posta soltanto da chi non ama. L’amore può trovarsi soltanto nell’azione, che è relazione. 

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà".

Copywrite:
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma.

giovedì 24 novembre 2011

Relazione e isolamento - Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà

"AVVISO PER I LETTORI": gli articoli rigurdanti J. Krishnamurti verranno raccolti nella pagina secondaria "Jiddù Krishnamutri" creata appositamente...buona lettura!!!

La vita è esperienza, esperienza di relazione.
Non si può vivere isolati; così la vita è relazione, e la relazione è azione.
E come si può possedere quella capacità di intendere la relazione, nella quale consiste la vita?
Relazione non significa, forse, oltre che comunione con la gente, anche intimità con le cose, e le idee? 
La vita è relazione, il che si esprime mediante il contatto con le cose, le persone e le idee. Comprendendo la relazione troveremo la capacità di affrontare pienamente, adeguatamente la vita.
Pertanto il nostro problema non è la capacità – poiché la capacità non è dipendente dalla relazione – ma piuttosto l’intendimento della relazione stessa, che naturalmente produrrà la capacità di corrispondervi, adeguarvisi, rispondervi prontamente.
Senza dubbio la relazione è lo specchio nel quale si scopre se stessi.
Senza relazione non si è; essere equivale ad essere in rapporto; essere in rapporto è esistere.
Si esiste soltanto in relazione: altrimenti non si esiste, l’esistenza non ha significato.
Non è perché pensate di essere che giungete ad esistere.
Esistete perché siete in relazione; ed è la mancanza di relazione che provoca conflitto.
Ora, non si comprende la relazione, perché la si impiega semplicemente come un mezzo per perseguire le nostre conquiste, le nostre trasformazioni, il nostro divenire.
Ma la relazione è un mezzo di autoscoperta, poiché la relazione equivale ad essere; essa è l’esistenza. Senza relazione, io non sono.
Per comprendermi, devo comprendere la relazione. La relazione è uno specchio nel quale posso vedere me stesso.
Tale specchio può essere distorto, oppure può essere “com’è”, riflettendo ciò che è.
Ma la maggior parte di noi nella relazione, in quello specchio, vedono solo ciò che preferirebbero vedere; non vedono ciò che è. Preferiamo idealizzare, evadere, vivere nel futuro piuttosto che comprendere quella relazione nel presente immediato.
Ora, se esaminiamo la nostra vita, il nostro rapporto con gli altri, vedremo che si tratta di un processo di isolamento.
In realtà non ci occupiamo l’uno dell’altro; e sebbene se ne parli moltissimo, in realtà non siamo interessati agli altri.
Restiamo in rapporto con gli altri finché tale rapporto ci offre un vantaggio, un rifugio, finché insomma offre soddisfazione. Ma nel momento in cui vi è disturbo nel rapporto, tale da produrre in noi disagio, scartiamo quel rapporto.
In altri termini, vi è rapporto soltanto finché se ne trae qualche remunerazione.
Ciò può sembrare sgradevole, ma se esaminerete la vostra vita da vicino, vedrete che è un fatto; ed evadere a un fatto significa vivere nell’ignoranza, attraverso la quale non si porrà mai alcun vero rapporto.
Se guardiamo entro le nostre vite e consideriamo la relazione, vediamo che si tratta di un processo fatto per costruire una resistenza contro gli altri, di un muro al di sopra del quale osserviamo e guardiamo gli altri.
Ma quel muro lo manteniamo sempre, e restiamo dietro di esso, si tratti di un muro psicologico, di un muro materiale, di un muro economico o di un muro nazionale.
Finché vivremo nell’isolamento, al di là di un muro, non vi sarà rapporto con gli altri; e vivremo rinchiusi, perché ciò è assai più soddisfacente, perché riteniamo che sia di gran lunga più sicuro.
Il mondo ci spezza a tal punto, vi è tanta angoscia, tanto dolore, guerra, distruzione, miseria, che desideriamo evadere, e trincerarci all’interno dei muri di sicurezza della nostra personale psicologia.
Così la relazione per la maggior parte di noi è in realtà un processo di isolamento, e ovviamente tale relazione costruisce una società pur essa isolante.
È esattamente quanto accade in tutto il mondo: si resta in isolamento e si tende la mano di là dal muro, chiamandolo nazionalismo, fraternità o ciò che volete, mentre in concreto i governi sovrani, e gli eserciti, continuano.
Seguitando ad aggrapparsi alle proprie limitazioni, si pensa di poter creare l’unità mondiale, la pace mondiale: il ché è impossibile. Finché vi sarà una frontiera, sia essa nazionale, economica, religiosa, o sociale, è ovvio che non potrà esservi pace nel mondo.
Il processo dell’isolamento fa parte del processo del perseguimento del potere; lo si persegua individualmente o in nome di un gruppo razziale o nazionale, l’isolamento è inevitabile, perché il desiderio stesso di potere, il desiderio di acquisire posizioni, è separatismo.
Dopo tutto è ciò che ciascuno di noi vuole, non è così ? 
Ciascuno vuole una posizione di potenza dalla quale dominare, sia in casa propria, sia in ufficio, sia in un regime burocratico. Tutti cercano il potere, e cercandolo fondano una società che si basa sul potere, militare, industriale, economico e così via:  il che è, pur esso, ovvio.
Non è forse isolante, per sua stessa natura, il desiderio di potere?
A me pare di estrema importanza intendere questo punto, poiché chi miri alla pace del mondo, chi persegua un mondo nel quale non vi siano guerre, non vi sia spaventosa distruzione, non vi sia più miseria catastrofica a scala incommensurabile, deve comprendere questo problema fondamentale: non sembra anche a voi ?
Chi prova affetto e gentilezza non ha alcun senso di potere; e pertanto un uomo di questo tipo non è legato ad alcun nazionalismo, a nessuna bandiera. Non ha bandiere. La vita in isolamento non esiste: non vi è un paese, non vi è popolo, non vi è individuo che possa vivere isolato; eppure, poiché si cerca il potere in tanti modi diversi, si alimenta l’isolamento.
Il nazionalista è una vera maledizione perché, proprio a causa del suo spirito nazionalistico e patriottico, crea un muro di isolamento. Si identifica a tal punto con il proprio paese, da costruire un muro contro un altro paese.
Che cosa accade quando si costruisce un muro contro qualche cosa ?  Accade che quella cosa batte continuamente al vostro muro.
Quando si resiste a qualcosa, la stessa resistenza dimostra che ci si trova in conflitto con l’altro. Perciò il nazionalismo, che è un processo di isolamento, derivante dal perseguimento del potere non potrà portare al mondo la pace.
Chi sia nazionalista e parli di fraternità mente; vive in contraddizione.
Si può vivere al mondo senza desiderare il potere, senza voler attingere una posizione di autorità ?
Senza dubbio, si può. E lo si fa quando non ci si identifica con qualche cosa di più grande. Quest’identificazione con qualcosa di più grande di noi – un partito, un paese, una razza, una religione, Dio – è perseguimento del potere. Poiché, se in voi stessi sarete vuoti, sordi, deboli, vi piacerà identificarvi con qualcosa di più grande di voi; e tale desiderio di identificazione equivale al desiderio di potere.
La relazione è un processo di auto-rivelazione, e, se non si conosce se stessi, i modi del proprio cuore e della propria mente, avrà ben poco significato la fondazione di un ordine esteriore, di un sistema, di una forma intelligente.
Ciò che importa è comprendere se stessi in relazione con gli altri.
Allora la relazione diventa non un processo di isolamento, ma un movimento nel quale si scoprono i propri stessi motivi, i propri pensieri, le proprie tendenze; e questa scoperta in se stessa è l’inizio della liberazione, l’inizio della trasformazione.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

sabato 19 novembre 2011

Tempo - Sofferenza - Morte. "Sul vivere e sul morire - Jiddù Krishnamurti"

Saanen, 28 Luglio 1964

Vorrei parlarvi di qualcosa che comprende la totalità della vita, qualcosa che non è frammentario ma che abbraccia invece l'intera esistenza dell'uomo. Se vogliamo penetrare tale argomento con una certa profondità penso che dobbiamo smettere di farci intrappolare da teorie, credi e dogmi. Quasi tutti noi ariamo senza sosta il terreno della mente, ma sembra che non riusciamo mai a seminarlo. Analizziamo, discutiamo, facciamo in quattro ogni capello, ma non comprendiamo l'intero movimento della vita. Penso allora che ci siano tre cose che dobbiamo comprendere fino in fondo, se vogliamo cogliere tutto intero il movimento della vita. Si tratta del tempo, della sofferenza e della morte. Per comprendere il tempo, per abbracciare il pieno senso della sofferenza e stare in compagnia della morte abbiamo bisogno della chiarezza dell'amore. L'amore non è una teoria, ne un' ideale. O ami o non ami. Non può essere insegnato. Non si possono prendere lezioni di amore, ne esiste un metodo la cui pratica quotidiana ci conduca a sapere cos'è l'amore. Penso piuttosto che si possa arrivare all'amore in modo naturale, semplice e spontaneo, nel momento in cui si comprende davvero il senso del tempo, la straordinaria profondità della sofferenza e la purezza che viene con la morte. Forse dovremmo considerare, in modo effettivo, aldilà delle teorie o delle astrazioni, la natura del tempo, la qualità, ovvero la struttura della sofferenza e quella cosa straordinaria che chiamiamo morte. Queste tre cose non sono separate. Se comprendiamo il tempo, comprendiamo cos'è la morte e comprenderemo anche che cosa è la sofferenza. Se però consideriamo il tempo come qualcosa di distinto dalla sofferenza e dalla morte, e cerchiamo di trattarlo separatamente, il nostro approccio sarà frammentario, e quindi non abbracceremo mai la straordinaria bellezza e la vitalità dell'amore. Tratteremo del tempo non come un'astrazione ma come una realtà, del tempo come durata, come continuità dell' esistenza. C'è il tempo cronologico, fatto di ore e giorni che si estendono per milioni di anni, ed è proprio il tempo cronologico che ha prodotto quella mente con la quale operiamo. La mente è un prodotto del tempo in quanto continuità dell'esistenza, e il perfezionamento e l'affinamento della mente attraverso tale continuità viene chiamato progresso. Il tempo è anche quella durata psicologica che il pensiero ha creato per farne uno strumento di conquista. Usiamo il tempo per progredire, per conquistare, per divenire, per ottenere un certo risultato. Per la maggior parte di noi, il tempo è un trampolino di lancio verso qualcosa di assai più grande: per lo sviluppo di determinate facoltà, per il perfezionamento di una certa tecnica, per l'ottenimento di un fine, di una meta, più o meno encomiabile. In tal modo siamo giunti a pensare che il tempo sia indispensabile per comprendere cosa sia vero, cosa sia dio, casa ci sia dietro tutto il travaglio dell' uomo. Generalmente consideriamo il tempo come il periodo che intercorre tra il momento presente e un determinato momento nel futuro, e usiamo quel periodo per migliorare il carattere, per liberarci di una certa abitudine, per sviluppare un muscolo o un modo di pensare. Per due migliaia di anni la mente dei cristiani è stata condizionata a credere in un "salvatore", nell'inferno e nel paradiso; in oriente la mente ha subito un condizionamento del genere per un periodo assai più lungo. Pensiamo che il tempo sia indispensabile per ogni cosa che dobbiamo fare o capire. Quindi il tempo è diventato un peso, un' ostacolo all'effettiva percezione dei fenomeni; ci impedisce di percepire immediatamente la verità di qualcosa perchè pensiamo di doverle dedicare un po' di tempo. Diciamo: "domani, o tra un paio d' anni comprenderò questa cosa con chiarezza straordinaria". Nel momento in cui ammettiamo il tempo stiamo sviluppando l'indolenza, quella particolare forma di pigrizia che ci impedisce di percepire subito le cose per ciò che realmente sono. Pensiamo di aver bisogno di tempo per far breccia nel condizionamento imposto alla nostra mente dalla società con le religioni organizzate, i codici etici, i dogmi, l'arroganza e lo spirito competitivo. Pensiamo in termini di tempo perchè il pensiero è fatto di tempo. Il pensiero è la risposta della memoria, intendendo per memoria quel bagaglio che è stato accumulato, ereditato ed acquisito sia individualmente sia attraverso la propria razza, la comunità, il gruppo e la famiglia. Tale bagaglio è il risultato del processo cumulativo della mente, e la sua accumulazione ha richiesto tempo. Per molti di noi la mente è memoria, e ogni qual volta c'è una sfida, un quesito, è la memoria che risponde. E' simile a la risposta di un cervello elettronico, che funziona attraverso le associazioni. Poichè il pensiero è una reazione della memoria è per sua stessa natura creatura e creatore del tempo. Non dovete considerare ciò che vi dico come una teoria: non si tratta di qualcosa su cui dovete ragionare. Non dovete pensarci su ma piuttosto percepirlo, vedere perchè le cose stanno in tal modo. Non ho intenzione di penetrare tutti i dettagli più intricati, mi basta aver indicato gli elementi essenziali: o li vedete o non li vedete. Se avete seguito tutto ciò che è stato detto, non solo verbalmente, linguisticamente o analiticamente, se lo avete davvero visto così com'è, potrete comprendere in che modo il tempo rappresenti un' inganno. La domanda successiva è se il tempo si può fermare. Se siamo capaci di percepire l'intero processo del nostro stesso agire, con la sua profondità e la sua futilità, la sua bellezza e la sua bruttezza, non domani, ma immediatamente, ecco che questa stessa percezione diventa un'atto che distrugge il tempo. Se non comprendiamo il tempo non possiamo comprendere la sofferenza. Vorremmo farle apparire come due cose diverse, ma non lo sono affatto. Andare in ufficio, restare con la propria famiglia e avere figli non sono eventi accidentali, isolati. Al contrario sono tutti profondamente e intimamente collegati uno all'altro; senza la sensibilità che ci è donata dall'amore non possiamo percepire la straordinaria intimità di tali correlazioni. Per comprendere la sofferenza dobbiamo penetrare realmente nella natura del tempo e nella struttura del pensiero. Il tempo deve fermarsi, in caso contrario non faremo altro che ripetere le informazioni che abbiamo accumulato, proprio come un cervello elettronico. Finchè il tempo non si ferma, e cioè finchè il pensiero non cessa, c'è solo mera ripetizione, regolazione, una modificazione continua. Non c'è mai qualcosa di nuovo. Siamo gloriosi cervelli elettronici, forse un po' più indipendenti, ma ancora simili alle macchine nel nostro modo di funzionare. Per comprendere la natura della sofferenza e la fine della sofferenza è necessario comprendere il tempo, e comprendere il tempo equivale a comprendere il pensiero. Non si tratta di due fenomeni distinti. Nel comprendere il tempo ci si imbatte nel pensiero, e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo, e quindi della sofferenza. Se ciò ci è ben chiaro, possiamo osservare la sofferenza senza venerarla come fanno i cristiani. Di solito ciò che non capiamo o lo adoriamo o lo distruggiamo. Lo collochiamo in una chiesa, in un tempio, o ancora in un remoto angolo della nostra mente, e ne abbiamo soggezione, oppure lo calpestiamo e lo gettiamo via, magari lo sfuggiamo. Ma qui non facciamo nessuna di queste cose. Ci limitiamo a riconoscere che per millenni l'uomo ha lottato con il problema della sofferenza, senza essere mai stato in grado di risolverlo, e così si è assuefatto a esso, lo ha accettato, considerandolo un fattore inevitabile della vita. Non fare altro che accettare la sofferenza non soltanto è stupido ma ottunde la mente. La mente diventa insensibile, brutale, superficiale, e di conseguenza la vita diventa assai meschina, un semplice susseguirsi di lavoro e piacere. Si vive un' esistenza frammentaria, nei panni di un uomo d'affari, uno scienziato, un' artista, un sentimentalista, una cosiddetta persona religiosa, e via dicendo. Invece per capire, ed essere liberi dalla sofferenza, bisogna comprendere il tempo e in tal modo comprendere il pensiero. Non possiamo negare la sofferenza, ne scappare, sfuggirla nei passatempi, nelle chiese, nei credi organizzati; e non possiamo neppure accettarla e venerarla; e per non fare una qualsiasi di queste cose ci vuole una notevole attenzione, ovvero energia. La sofferenza è radicata nell'autocommiserazione, quindi per comprendere la sofferenza per prima cosa è necessario troncare decisamente ogni forma di autocommiserazione. Non so se vi siete mai resi conto di quanto vi sentite addolorati per voi stessi quando pensate: "sono solo", tanto per fare un'esempio. Nel momento in cui vi lasciate andare all'autocommiserazione avete creato il terreno in cui mette le radici la sofferenza. Per quanto vi sforziate di giustificare la vostra commiserazione, di razionalizzarla, d'ingentilirla e di mascherarla con i concetti, è sempre là, e vi corrompe fino al midollo. Quindi chiunque desideri comprendere la sofferenza deve iniziare liberandosi di quella trivialità brutale, egocentrica ed egoista che prende il nome di autocommiserazione. Potremo auto commiserarci perchè siamo ammalati, o perchè la morte ci ha portato via una persona cara, oppure perchè non ci siamo realizzati e quindi ci sentiamo frustratri, incupiti; quale che sia la causa, l'autocommiserazione è la radice della sofferenza. Una volta liberati dall' autocommiserazione, possiamo confrontarci con la sofferenza senza venerarla, senza sfuggirla, ne doverle attribuire un significato sublime e spirituale, sostenendo per esempio che dobbiamo soffrire per trovare dio, il che è un completo controsenso. Solo una mente ottusa e stupida si adatta pazientemente alla sofferenza. Quindi nei confronti della sofferenza non dev' esserci alcun genere di accettazione, ma neppure una negazione. Se abbiamo abbandonato l'autocommiserazione, abbiamo privato la sofferenza di ogni sentimentalismo, di ogni forma di emotività che scaturisce dall'autocommiserazione. A quel punto possiamo osservare la sofferenza con la massima attenzione. Spero che non vi limitiate ad accettare verbalmente ciò che è stato detto, ma che lo sperimentiate con me man mano che andiamo avanti. Cercate di essere consapevoli del vostro modo di accettare ottusamente la sofferenza, del vostro modo di razionalizzarlo; rammentate le vostre scuse, l'autocommiserazione, il sentimentalismo, l'atteggiamento emotivo nei confronti della sofferenza, perchè tutto ciò non è altro che spreco di energia. Per comprendere le sofferenza dovete concederle tutta la vostra attenzione, e in quell'attenzione non c'è posto per le scuse, per il sentimento, per la razionalizzazione, non c'è posto per alcun genere di auto commiserazione. Credo di aver detto chiaramente che occorre dedicare tutta la nostra attenzione alla sofferenza. In tale attenzione non c'è uno sforzo per risolvere o comprendere la sofferenza. Ci si limita a guardare, a osservare. Qualsiasi sforzo di capire, razionalizzare o sfuggire alla sofferenza impedisce quello stato negativo di completa attenzione nell'ambito del quale il fenomeno che chiamiamo sofferenza può essere compreso. Non stiamo analizzando la sofferenza tramite tale investigazione analitica al fine di liberarcene, perchè questo è soltanto un' altro giochetto della mente. La mente analizza la sofferenza e quindi immagina di aver capito e di essersene liberata, il che è assurdo. Forse è possibile che ci liberiamo di un certo tipo di sofferenza, ma in definitiva la sofferenza riemergerà nuovamente in qualche altra forma. Stiamo considerando la sofferenza nel suo complesso, la sofferenza in quanto tale, che sia la vostra, la mia o quella di qualsiasi altro essere umano. Se vogliamo comprendere la sofferenza dobbiamo comprendere sia il tempo sia il pensiero. Dev' esserci un' assoluta consapevolezza di ogni via di fuga, di ogni forma di auto commiserazione, di ogni verbalizzazione, così che la mente possa raggiungere una condizione di quiete assoluta al cospetto di qualcosa che deve essere compreso. A quel punto non c'è più separazione tra l'osservatore e l'oggetto osservato. Non c'è più un io, l'osservatore, il pensatore, che è in una condizione di sofferenza e sta osservando proprio quella sofferenza, c'è soltanto lo stato di sofferenza. Questa condizione di sofferenza indivisa è qualcosa di indispensabile, perchè se ci confrontiamo con la sofferenza in qualità di osservatori creiamo un conflitto, che annebbia la mente e disperde energia, e quindi non c'è più attenzione. Quando la mente comprende la natura del tempo e del pensiero, quando l'autocommiserazione, il sentimento, l'emotività e tutto il resto sono stati sradicati, ecco che cessa ciò che ha creato tutta questa complessità, il pensiero, e non c'è più tempo; a quel punto siamo direttamente e intimamente in contatto con quella cosa che chiamiamo sofferenza. La sofferenza sussiste solo finchè c'è una fuga dalla sofferenza, un desiderio di allontanarsi da essa, di scioglierla oppure di venerarla. Tuttavia, quando non c'è nulla di tutto ciò perchè la mente è in contatto diretto con la sofferenza, e quindi si mantiene completamente silenziosa nei suoi confronti, finiamo per scoprire che la mente non sta affatto soffrendo. Allorchè la nostra mente è in completo contatto con la realtà della sofferenza, quella realtà stessa dissolve tutti quegli elementi del tempo e del pensiero che producono sofferenza. Giungiamo perciò alla cessazione della sofferenza. Ora, come possiamo capire quel fenomeno che chiamiamo morte, e che ci incute tanto timore? L'umo ha ideato molti percorsi tortuosi per occuparsi della morte, venerandola, negandola, afferrandosi a un'infinità di credi e così via. Tuttavia per comprendere la morte è senz' altro necessario ricominciare da capo, perchè in realtà non sappiamo nulla della morte, non vi pare? Forse abbiamo visto morire molte persone, e abbiamo osservato in noi stessi e in altri il sopraggiungere della vecchiaia con il deterioramento che la accompagna, sappiamo che la vita fisica può terminare a causa dell'invecchiamento, di un' incidente, una malattia, un' omicidio o un suicidio, tutta via non conosciamo la morte nello stesso modo in cui conosciamo il sesso, la fame, la credeltà, la brutalità. Non sappiamo cosa significhi realmente morire, e se non giungiamo a tale conoscenza la morte non ha alcun senso. Ciò di cui abbiamo paura è un' astrazione, qualcosa che non conosciamo. Non conosciamo la pienezza della morte, ne quali siano le sue implicazioni, e quindi la mente è spaventata, è spaventata dall'idea della morte, non dalla sua realtà, che non conosce. Cerchiamo di approfondire un po' questo punto. Se dovessimo morire all'istante, non avremmo tempo di pensare alla morte e di esserne spaventati. Tuttavia c'è un' intervallo tra il presente e il momento in cui sopraggiungerà la nostra morte, e durante quell'intervallo c'è tempo in abbondanza per preoccuparci e razionalizzare. Vorremmo poter trasportare sino alla prossima vita, ammesso che ce ne sia una, tutte le ansie, i desideri e la conoscenza che abbiamo accumulato, e quindi inventiamo teorie in proposito, oppure crediamo il qualche forma di immortalità. Per noi la morte è qualcosa di separato dalla vita. La morte è laggiù, mentre noi siamo qui, indaffarati a vivere, guidando un' auto, facendo l'amore, sperimentando la fame e le preoccupazioni, andando in ufficio, accumulando conoscenze, eccetera. Non vogliamo morire perchè non abbiamo ancora finito di scrivere il nostro libro, oppure perchè non sappiamo ancora suonare il violino con sufficente maestri. Così separiamo la morte dalla vita e diciamo: "ora capirò la vita e tra un po' anche la morte". Però le due cose non sono separate. E' questa la prima cosa da capire. La vita e la morte sono un' unica cosa, sono intimamente correlate, e non è possibile isolare una delle due e cercare di comprenderla separatamente dall' altra. Tuttavia questo è l' atteggiamento della moggior parte della gente. Separiamo la vita in compartimenti stagni indipendenti l' uno dall' altro. Se siamo economisti, l' economia è l' unica cosa di cui ci preoccupiamo, e del resto non sappiamo proprio nulla. Se siamo specializzati in otorinolaringoiatria, oppure in cardiologia, ci muoviamo in quel campo di conoscenza limitato per quarant' anni, ed è quello il nostro paradiso nel momento in cui muoriamo. Trattare la vita in modo frammentario vuol dire vivere in costante confusione, contraddizione e infelicità. Dobbiamo percepire la totalità della vita, e possiamo farlo solo se c'è calore, se c'è amore. L'amore è l' unica rivoluzione che potra produrre l' ordine. Non è una buona cosa accumulare una conoscenza sempre più vasta in matematica, medicina, storia, economia, e poi amalgamare tutti i frammenti: non ci servirà a niente. Senza amore, la rivoluzione conduce soltanto alla venerazione dello stato, o all' adorazione di un' immagine, o ancora a innumerevoli corruzioni tiranniche e alla distruzione dell' uomo. Allo stesso modo, quando la mente, spinta dalla paura, cerca di allontanare da se l'idea della morte e la separa dalla vita quotidiana, tale separazione non fa altro che generare olteriore paura e ansia, nonchè una proliferazione di teorie sulla morte. Per comprendere la morte dobbiamo comprendere la vita. Tuttavia la vita non è la continuità del pensiero, anzi è questa stessa continuità che nutre ogni nostra infelicità.
E allora, può la mente trasportare se stessa dal remoto all' immediato? Mi seguite? In realtà, la morte non è qualcosa di lontano, è qui e ora. E' proprio qui, mentre stiamo parlando, mentre ci stiamo divertendo, mentre ascoltiamo, mentre andiamo in ufficio. E' qui in ogni istante della vita, proprio come l' amore. Se appena riusciamo a percepire tale realtà, scopriamo che non c'è più nessuna paura della morte. Ciò di cui abbiamo paura non è il non conosciuto ma il perdere il cunosciuto. Abbiamo paura di perdere la nostra famiglia, di restare soli, senza compagnia; abbiamo paura del dolore della solitudine, di restare senza le esperienze e le cose che abbiamo accumulato. E' dal conusciuto che abbiamo paura di separarci. Il conosciuto è ricordare, ed è a tale ricordo che si afferra la mente. Tuttavia la memoria è soltanto un processo meccanico, casa che i computer stanno dimostrando in modo eccellente. Per comprendere la bellezza e la natura straordinaria della morte, dev' esserci libertà dal conosciuto. E' proprio nel morire al conosciuto che iniziamo a comprendere la morte, perchè in tal modo la mente viene rinvigorita e rinnovata, e no c'è paura. Quindi penetrare nella condizione che chiamiamo morte è possibile. Di conseguenza, dall' inizio alla fine, la vita e la morte sono un' unica cosa. L'umo saggio comprende il tempo, il pensiero e la sofferenza, e solo lui può capire la morte. La mente che muore ogni istante, senza mai accumulare, senza mai raccogliere le esperienze, è innocente, e quindi è continuamente il uno stato di amore.

Testo tratto dal libro "Sul vivere e sul morire" di Jiddù Krishnamurti; (pag. 9);

Copywrite 1992 Krishnamurti Foundation Trusth Limited and Krishnamurti Foundation of America
Copywrite Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

lunedì 7 novembre 2011

Sulla Guerra - Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà

 Domanda: com'è possibile risolvere l'attuale caos politico e la crisi mondiale ???  Vi è qualcosa che l'individuo possa fare per impedire la guerra incombente???


Krishnamurti: la guerra è la proiezione spettacolare e sanguinosa della nostra vita di tutti i giorni: non è così?
La guerra non è che l'espressione esterna del nostro stato interiore, è una dilatazione della nostra azione quotidiana. é più spettacolare, è più sanguinosa e più distruttiva, ma è il risultato collettivo delle nostre attività individuali.
Perciò, voi ed io siamo responsabili della guerra e, che cosa possiamo fare per fermarla?
Ovviamente, la guerra che sempre incombe, non potrà venire impedita da voi o da me, perchè è già in movimento, ha già luogo, sebbene, per momento, prevalentemente a livello psicologico.
Poichè è già in movimento, non la si può fermare: i problemi sono troppi, troppo grandi e già compromessi.
Ma voi ed io, vedendo che la casa è in fiamme, possiamo comprendere la cause dell'incendio, allontanarcene e costruire in luogo nuovo, con materiali diversi ed incombustibili, che non produrranno altre guerre.
E' tutto ciò che possiamo fare.
Voi ed io possiamo vedere che cosa crei le guerre, e se abbiamo interesse a porvi fine, possiamo cominciare col trasformare noi stessi, che siamo la causa stessa delle guerre.
Una signora americana venne a trovarmi un paio di anni fa, durante la guerra. Mi disse che aveva perso il proprio figlio in italia e che aveva un'altro figlio, di 16 anni, che intendeva salvare; e così parlammo della cosa. Le suggerii che , per salvare suo figlio, doveva cessare di essere americana; doveva cessare di essere avida, doveva cessare di accumulare denaro, di perseguire il potere, il dominio, ed essere moralmente semplice: non meramente semplice negli abiti, nelle cose esteriori, ma nei suoi pensieri e sentimenti, nelle sue relazioni.
Ed ella disse: "questo è troppo. Lei mi chiede davvero troppo. Non posso farlo, le circostanze sono troppo potenti perchè io possa mutarle".
In questo modo ella fu responsabile della distruzione di suo figlio.
Possiamo controllare le circostanze, perchè le abbiamo create noi.
La società è il prodotto della relazione, della vostra e della mia insieme. Se mutiamo nel nostro rapporto, muterà la società; contare puramente sulla legislazione, sulla costrizione, sulla trasformazione della società esteriore, restando internamente corrotti, continuando internamente a perseguire il potere, la posizione, il dominio, significa distruggere l'esterno, per quanto esso sia stato costruito accuratamente e scientificamente.
Ciò che è all'interno travolgerà sempre l'esterno.
Che cosa causa la guerra: religiosa, politica o economica?
Ovviamente la fede, o nel nazionalismo, o in un' ideologia, oppure in un dogma particolare. Se non avessimo fede, ma buona volontà, amore e considerazione l'uno per l'altro, non vi sarebbero guerre. Ma siamo nutriti di fedi, idee e dogmi, e perciò alleviamo lo scontento. La crisi attuale è eccezionale, e come esseri umani o perseguiremo la strada del conflitto ininterrotto e delle guerre continue, risultato della nostra azione quotidiana, oppure scorgeremo le cause della guerra e volgeremo loro le spalle. Ovviamente ciò che causa la guerra è il desiderio di potere, di prestigio, di denaro; e anche la malattia chiamata nazionalismo, l'adorazione di una bandiera, e la malattia dell'organizzazione religiosa, l'adorazione di un dogma.
Tutte sono cause di guerra; se tu, come individuo , appartieni a qualcuna delle religioni organizzate, se tu sei avido di potere, se tu sei invidioso, sei costretto a produrre una società il cui risultato sarà la distruzione.
Così, una volta di più, dipende da voi e non dai capi: non dai così detti uomini di stato e così via. Dipende da voi e da me, ma sembra che non ci se ne renda conto. Se almeno una volta sentissimo realmente la responsabilità delle nostre azioni, come rapidamente porremmo termine a tutte le guerre, a questa miseria atroce! Ma ecco, siamo diversi. Abbiamo tre pasti al giorno, abbiamo il nostro lavoro, i conti in banca, piccoli e grandi, e diciamo: "per amor di dio, non ci disturbate, lasciateci in pace". Quanto più siamo in alto, quanto più ci occorre sicurezza, intoccabilità, tranquillità, tanto più vogliamo esser lasciati soli, mantenere le cose come stanno; ma come stanno non potranno rimanere, perchè nulla vi è che le mantenga, e tutto si disintegra. Non vogliamo affrontare queste cose, non vogliamo accettare il fatto che voi ed io siamo responsabili delle guerre. Voi ed io possiamo parlare di pace, tenere conferenze, sedere intorno ad un tavolo e discutere, ma all'interno, psicologicamente, vogliamo il potere e la posizione, è l' avidità che ci spinge. Intrighiamo, siamo nazionalisti, siamo legati a fedi e a dogmi, per i quali siamo pronti a morire e a distruggerci l'un l'altro. Pensate che uomini come voi e io posso avere la pace nel mondo? Per avere la pace, dovrete essere in pace; vivere in pace significa non creare antagonismi. La pace non è un'ideale. Secondo me un ideale non è altro che una via di fuga, un'evitare ciò che è, un contraddire ciò che è. Un ideale impedisce l'azione diretta su ciò che è. Per avere la pace dovremo amare, dovremo cominciare non col vivere una vita ideale, ma col vedere le cose quali sono ed agire su di esse, trasformarle. Finchè ciascuno di noi perseguirà la sicurezza psicologica, la sicurezza fisiologica di cui abbiamo bisogno, - cibo veste riparo - verrà distrutta.
Possediamo la sicurezza psicologica, che non esiste; e la perseguiamo, se lo possiamo, mediante il potere, la posizione, i titoli, i nomi: e questo distrugge la sicurezza fisica. Tutto ciò è ovvio, se lo guardate bene.
Per portare la pace nel mondo, per porre fine a tutte le guerre, occorre una rivoluzione entro l'individuo, in voi ed in me. La rivoluzione economica non ha significato senza questa rivoluzione interiore, poichè la fame è il risultato dello scarso assestamento delle condizioni economiche determinato dai nostri stati psicologici: avidità, invidia, cattiva volontà, voglia di possedere. Per porre fine all'angoscia, alla fame, alla guerra, occorre una rivoluzione psicologica e pochi di noi sono pronti ad affrontarla.
Parleremo di pace, proteggeremo leggi, creeremo nuove leghe, le nazioni unite e così via, e così via; ma non otterremo la pace, perchè non abbandoneremo la nostra condizione, la nostra autorità, il denaro, la proprietà, la nostra stupida vita. Contare sugli altri è assulutamente futile; gli altri non ci porteranno la pace. Nessun capo ci darà la pace, nessun governo, nessun esercito, nessun paese. Ciò che porterà la pace è una trasformazione interiore che comporterà un'azione esteriore. La trasformazione interiore non è l'isolamento, non è ritrassi dall'azione esterna. All'opposto, vi può essere azione retta soltanto quando vi è retto pensare, e non vi sarà retto pensiero se non vi sarà conoscenza di se. Senza conoscere noi stessi, non vi sarà pace.
Per porre fine alla guerra esteriore, dovremmo cominciare a porre fine alla guerra dentro noi stessi. Qualcuno, fra noi, assentirà dicendo "sono d'accordo", e uscirà di qui facendo esattamente la stessa cosa che ha sempre fatto da dieci o venti anni. Il vostro accordo è puramente verbale e non ha significato, poichè le miserie e le guerre del mondo non verranno certo impedite dal vostro annuire casuale. Vi porrete fine soltanto quando vi renderete conto del pericolo, vi renderete conto della vostra responsabilità, quando non la lascerete a qualcun' altro. Se vi renderete conto della sofferenza, se vedrete l'urgenza di un' azione immediata e non rimanderete, allora vi trosformerete; la pace verrà soltanto qunado voi stessi sarete in pace col vostro vicino.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà" - titolo originale dell'opera "The first and last freedom" Pag. 146 capitolo 10.

Copywrite:
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

25 Aprile 2020 ore 17:00 Riprendiamoci la nostra libertà!

Con questo grido invitiamo tutti coloro che vogliono essere LIBERI! Liberi di andare dove gli pare come da costituzione, che non vogliono ...