JIDDU' KRISHNAMURTI _ Video - Citazioni - Testi.


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Sulla Morte - La prima ed ultima Libertà - Jiddù Krishnamurti

Domanda: Che relazione ha la morte con la vita?

Krishnamurti: Vi è separazione tra vita e morte? Perché riteniamo la morte qualcosa di diverso dalla vita? Perché temiamo la morte? E tale separazione è reale, o puramente arbitraria, o è una cosa della mente?
Quando parliamo di vita, intendiamo il vivere come un processo di continuità nel quale vi è identificazione. Io e le mie passate esperienze: questo intendiamo per vita, non è così? La vita è un processo di continuità nella memoria, sia conscio che inconscio, con i suoi vari sforzi, dispute, incidenti, esperienze e così via. Tutto ciò è quel che chiamiamo vita; in opposizione, vi è la morte, che vi pone fine. Avendo creato l'opposto, cioè la morte e temendola, procediamo a considerare la relazione tra vita e morte; se possiamo gettare un ponte sull'abisso mediante un qualche spiegazione, mediante la fede nella continuità, nell'al di là, siamo soddisfatti. Crediamo nella reincarnazione o in qualche altra forma di continuità del pensiero, e allora cerchiamo di stabilire una relazione tra il noto e l'ignoto. Cerchiamo di gettare un ponte tra il noto e l'ignoto e con ciò di trovare la relazione tra passato e futuro. E' questo ciò che facciamo, non è così? Quando investighiamo se vi siano relazioni tra vita e morte. Intendiamo sapere come superare l'abisso tra la vita e la fine: è questo il nostro desiderio fondamentale.
Ora, la fine, cioè la morte, può conoscersi mente si vive? Se possiamo conoscere che cosa sia la morte mentre viviamo, allora non avremo problema. E' perche non possiamo sperimentare l'ignoto mentre ancora viviamo, che la temiamo. Il nostro sforzo è di stabilire una relazione tra noi stessi, cioè il risultato del noto, e quello dell'ignoto che chiamiamo morte. Può esservi relazione tra il passato e qualche cosa, che la mente non può concepire, e che chiamiamo morte? Perché separiamo le due cose? Non è forse perché la nostra mente può funzionare soltanto nell'ambito del noto, nell'ambito del continuo? Conosciamo noi stessi soltanto come pensatori, come agenti, con certe memorie di miseria, piacere, amore, affezione, vari tipi di esperienza; conosciamo noi stessi soltanto come qualcosa che continua: altrimenti non avremmo memoria di noi stessi come di qualche cosa. Ora, quando questo qualcosa giunge a termine, il che chiamiamo morte, si ha paura dell'ignoto; e così vogliamo tratteggiare i lineamenti dell'ignoto nel noto, e tutto il nostro sforzo è di conferire all'ignoto continuità. Vale a dire, non vogliamo conoscere la vita, che include la morte, ma vogliamo conoscere il modo di continuare per non finire. Non vogliamo conoscere la vita e la morte, vogliamo solo sapere come continuare senza finire.
Ciò che continua non si rinnova. Non può esservi nulla di nuovo, nulla di creativo in ciò che continua: il che è piuttosto ovvio. Soltanto quando la continuità ha termine, vi è la possibilità di qualche cosa che sia sempre nuovo. Ma è appunto questo termine che temiamo, e non vediamo che soltanto nel finire può esservi rinnovamento, creatività, l'ignoto: e non nel trascinare di giorno in giorno le nostre esperienze, memorie e sventure. Soltanto se ogni giorno moriamo rispetto a tutto ciò che è antico potrà esistere il nuovo. Il nuovo non può esistere dov'è continuità: perché il nuovo è creazione, è l'ignoto, l'eterno, dio, o ciò che volete. La persona, l'entità continua, che cerchi l'ignoto, il reale, l'eterno, non lo troverà mai: perché potrà trovare soltanto ciò che proietta fuori di se stesso, e ciò che proietta non è la realtà. Soltanto nel timore, nel morire, potrà conoscersi il nuovo; e chi cerchi di trovare una relazione tra vita e morte, e cerchi di superare l'abisso tra la propria continuità e ciò che egli ritiene esista al di là, vive in un mondo fittizio, irreale, in una proiezione di se stesso.

Ora è possibile, vivendo, morire - il che significa giungere a termine, essere come nulla? E' possibile, pur vivendo in questo mondo, ove tutto si accresce sempre più o diminuisce sempre più, ove tutto è un processo per arrampicarsi, ottenere, aver successo, è possibile in un mondo così fatto conoscere la morte? E' possibile por temine a tutti i ricordi, non della strada che vi porta alla vostra casa e così via, ma all'attaccamento intimo mediante la memoria alla sicurezza psicologica, alle memorie accumulate e immagazzinate, nelle quali si cerca sicurezza, felicità? E' possibile por termine a tutto ciò: il che significa morire ogni giorno in modo che domani possa darsi un rinnovamento? Soltanto allora si conoscerà la morte vivendo. Soltanto in quel morire, in quel giungere a termine, in quel mettere fine alla continuità, si ha rinnovamento, si ha quella creazione, che è eterna.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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SULLA MEMORIA - La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti

Domanda: Lei dice che la memoria è un'esperienza incompleta. Io ricordo, e serbo una vivida impressione delle Sue conversazioni. In che senso si tratta di un'esperienza incompleta? Per favore, mi spieghi quest'idea in tutti i suoi dettagli.

Krishnamurti: Che cosa intendiamo per memoria? Si va a scuola e ci si riempie di fatti, di scienza tecnica. Se si è un tecnico, si impiega la memoria della scienza tecnica per costruire un ponte. Questa è memoria fattuale. Vi è pure una memoria psicologica. Voi mi avete detto qualche cosa, piacevole e spiacevole, ed io la serbo; quando vi riincontro, vi incontro con quella memoria, con la memoria di ciò che avete detto o non detto. Vi sono due aspetti della memoria, quello psicologico e quello fattuale. Sono sempre interrelati, e perciò non si distinguono chiaramente. Sappiamo che la memoria fattuale è essenziale per vivere, ma la memoria psicologica è essenziale? Qual è il fattore che serba la memoria psicologica? Che cosa fa sì che psicologicamente ci si rammenti un insulto o una lode? Perché si serbano certe memorie ed altre vengono rimosse? Ovviamente si serbano le memorie piacevoli e si evitano quelle spiacevoli. Se osservate, vedrete che le memorie spiacevoli vengono messe da parte assai più rapidamente di quelle piacevoli. La mente è memoria, a qualsiasi livello, con qualsiasi nome voi la chiamiate; la memoria è il prodotto del passato, nel passato si fonda, perché il passato è memoria, è uno stato condizionato. Ora, con tale memoria affrontiamo la vita, affrontiamo una sfida nuova. La sfida è sempre nuova, e la nostra risposta è sempre antica, perché risulta dal passato. Così sperimentare senza memoria è uno stato, e sperimentare con la memoria è uno stato diverso. Vale a dire, vi è una sfida, che è sempre nuova. L'affronto con una risposta, col condizionamento dell'antico. E dunque, che cosa accade? Assorbo il nuovo, lo comprendo; e l'esperienza del nuovo viene condizionata dal passato. Perciò la comprensione del nuovo è soltanto parziale, tale intendimento non è mai completo. Soltanto quando vi è l'intendimento completo di qualche cosa essa non lascia traccia nella memoria. Quando vi è una sfida, sempre nuova, la si affronta con la risposta dell'antico. La risposta antica condiziona quella nuova, e pertanto la devia, la sottopone ad un pregiudizio, è dunque non vi è comprensione completa del nuovo, così che il nuovo viene assorbito entro l'antico e pertanto rafforza quest'ultimo. Ciò può sembrare astratto, ma non è difficile se lo si affronta da vicino ed accuratamente. La situazione del mondo, oggi, esige un atteggiamento nuovo, un modo nuovo di affrontare il problema del mondo, che è sempre nuovo. Siamo incapaci di affrontarlo dal principio perché ci accostiamo ad esso con le nostre menti condizionate, con pregiudizi nazionali, locali, familiari e religiosi. Le nostre esperienze precedenti agiscono come una barriera per l'intendimento della nuova sfida, e così continuiamo a coltivare e a rafforzare la memoria, e pertanto non potremo mai intendere il nuovo, non potremo mai rispondere alla sfida pienamente e completamente. Soltanto quando si è capaci di affrontare la sfida daccapo, in modo nuovo, rinunciando al passato, soltanto allora essa porta i suoi frutti e i suoi tesori.
Chi ha posto la domanda dice: "Ricordo e serbo una vivida impressione delle Sue conversazioni precedenti. - In che senso si tratta di un'esperienza incompleta?" - Ovviamente si tratta di un'esperienza incompleta se non è altro che un'impressione, una memoria. Se Lei ha capito ciò che è stato detto, se ne ha visto la verità, tale verità non è memoria. La verità non è memoria, perché la verità è sempre nuova, si trasforma ininterrottamente. Lei ricorda una conversazione precedente. Perché? Perché sta impiegando la conversazione precedente come guida, perché non l'ha pienamente capita. Ella intende penetrarla e, consciamente o inconsciamente, la serba. Se si comprende qualcosa completamente, vale a dire, se se ne scorge completamente la verità, si vede che non se ne ha alcuna memoria. La nostra educazione è coltivazione di memoria, rafforzamento della memoria. Le vostre pratiche e rituali religiosi, il vostro leggere e conoscere, tutti rafforzano la memoria. Che cosa intendiamo con ciò? Perché impariamo a memoria? Non so se avete notato che avanzando negli anni, si guarda indietro al passato, alle sue gioie, ai sui dolori, ai suoi piaceri; se si è giovani, si guarda al futuro. Perché facciamo questo? Perché la memoria è diventata tanto importante? . Per la semplice ed ovvia ragione che non sappiamo come vivere in modo pieno e completo nel presente. Impieghiamo il presente come strumento per il futuro, e perciò il presente non ha significato. Non possiamo vivere nel presente perché stiamo impiegando il presente come porta verso il futuro. Dato che sto per diventare qualche cosa, non comprenderò mai completamente me stesso, e comprendere me stesso, chi io sia, esattamente, ora, non esige la coltivazione della memoria. Al contrario, la memoria è ostacolo all'intendimento di ciò che è. Non so se avete notato che un pensiero e un sentimento nuovo vi giunge soltanto quando la mente non è catturata entro la rete della memoria. Quando vi è un intervallo tra due pensieri, tra due memorie, quando tale intervallo può venir mantenuto, allora da questo intervallo nasce una nuova condizione, che non è più memoria. Abbiamo ricordi, e coltiviamo la memoria come mezzo per continuare. Il "me" ed il "mio" acquistano un'estrema importanza finché esiste la coltivazione della memoria, e dato che la maggior parte di noi è costruita in base ai "me" ed ai "mio", la memoria gioca nelle nostre vite un ruolo di grandissimo peso. Se non aveste memoria, la vostra proprietà, la vostra famiglia, le vostre ide non sarebbero importanti in quanto tali; così per rafforzare il “me ed il “mio”, coltivate la memoria. Se osserverete bene, vedrete che vi è intervallo tra due pensieri, tra due emozioni. In tale intervallo, che non è prodotto dalla memoria, vi è una libertà straordinaria rispetto al "me" ed al "mio", , e tale intervallo è fuori del tempo.

Consideriamo ora il problema in modo diverso. Senza dubbio la memoria è tempo, non è così? La memoria crea lo ieri, l'oggi e il domani. La memoria di ieri condiziona l'oggi e perciò configura il domani. Vale a dire, il passato, attraverso il presente, crea il futuro. Vi è un processo temporale che si svolge, e che è la volontà di divenire. La memoria è tempo, e attraverso il tempo speriamo di conseguire un certo risultato. Oggi sono un impiegato e, se mi si darà tempo ed opportunità, diverrò il direttore o il proprietario. A questo scopo dovrò avère tempo, e con la medesima mentalità noi diciamo: "Conseguirò la realtà, mi accosterò a Dio". Perciò, per realizzarmi, devo avere tempo, vale a dire devo coltivare la memoria, rafforzare la memoria mediante pratiche e disciplina, essere qualche cosa, conseguire, guadagnare, il che significa continuazione nel tempo. Attraverso il tempo speriamo di raggiungere quanto è fuori del tempo, attraverso il tempo speriamo di conseguire l'eterno. È possibile? Potrete mai cogliere l'eterno entro la rete del tempo, mediante la memoria, che appartiene al tempo? Ciò che è fuori del tempo potrà esistere soltanto quando la memoria, che è il "me" ed il "mio", cesserà. Se vedrete la verità del fatto che, attraverso il tempo, non è possibile comprendere o recepire quanto è fuori del tempo, allora potremo sviscerare il problema della memoria. La memoria delle cose tecniche è essenziale; ma la memoria psicologica, che mantiene il sé, il "me" ed il "mio", che procura identificazione e continuazione del sé, è totalmente nociva per la vita e la realtà. Quando se ne vedrà la verità, il falso cadrà; e perciò non si serberà più, psicologicamente, l'esperienza di ieri. Si guarderà un bel tramonto, un bell'albero in un campo, e quando lo si guarda per la prima volta, lo si gode completamente, interamente; ma vi si ritorna col desiderio di vederlo ancora. Che cosa accade quando vi si ritorna col desiderio di vederlo ancora? Che non vi è gioia, perché è la memoria del tramonto di ieri che ora mi costringe a ritornare, che mi urge a godere. Ieri non vi era memoria, soltanto un apprezzamento spontaneo, e una risposta diretta; oggi si ha il desiderio di ricatturare l'esperienza di ieri. Vale a dire, la memoria sta intervenendo tra voi ed il tramonto, e perciò non vi è gioia, non vi è ricchezza, non vi è pienezza del bello. O ancora: avete un amico, che ieri vi ha detto qualche cosa, un insulto o un complimento, e ve lo ricordate; con questo ricordo incontrate l'amico oggi. Ma in realtà non incontrate l'amico: portate con voi la memoria di ieri, che subito interviene. Così andiamo avanti, cingendo di memoria noi stessi e le nostre azioni, e per questo non vi è più novità, non vi è freschezza. Ecco perché la memoria rende la vita stanca, sorda e vuota. Viviamo in antagonismo gli uni con gli altri perché i "me" ed i "mio" vengono rafforzati dalla memoria. La memoria nasce mediante l'azione nel presente; diamo vita alla memoria attraverso il presente; ma, quando non diamo vita alla memoria, essa scompare. La memoria dei fatti, delle cose tecniche, è un'ovvia necessità; ma la memoria come ritenzione psicologica è nociva all'intendimento della vita, alla comunione con ciascun altro.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

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SULLA CONFUSIONE DELLA MENTE -
Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà

Domanda: Ho ascoltato tutte le Sue conversazioni e letto tutti i libri. Le chiedo, nel modo più serio, quale possa essere la scopo della mia vita, se, come Lei dice, ogni pensiero dovrà cessare, ogni conoscenza venir soppressa, ogni memoria perduta. Come pone Lei in relazione quella condizione dell'essere, qualunque essa sia secondo Lei, col mondo in cui viviamo? Quale relazione ha un simile essere con la nostra esistenza squallida e angosciata?

Krishnamurti: Vogliamo conoscere quale sia la condizione che può aversi soltanto quando non vi è più nessuna conoscenza, né chi la riconosca; vogliamo conoscere quale relazione tale condizione abbia col nostro mondo di attività quotidiane, di finalità quotidiane. Sappiamo come sia la nostra vita oggi: squallida, angosciosa, sempre atterrita, del tutto effimera; lo sappiamo assai bene. Vogliamo sapere quale relazione quest'altra condizione abbia con quella: e, se poniamo da parte la conoscenza, se, ci liberiamo dalle nostre memorie e così via, quale sia lo scopo dell'esistenza. Qual è lo scopo dell'esistenza quale noi oggi la conosciamo? E non in teoria, ma in pratica? Qual è lo scopo della nostra esistenza quotidiana? Semplicemente sopravvivere, non è così?, con tutta la nostra miseria, angoscia, confusione, guerre, distruzioni, e così via. Possiamo inventare teorie, possiamo dire: "questo non dovrebbe essere, ma dovrebbe essere qualche altra cosa". Ma queste sono tutte teorie, non fatti. Ciò che conosciamo è confusione, dolore, sofferenza, antagonismo senza fine. Sappiamo pure, se pure lo sappiamo, come tutto ciò nasca. Lo scopo della vita, di momento in momento, ogni giorno, è di distruggersi l'un l'altro, di sfruttarci l'un l'altro sia come individui che in collettività. Nella nostra solitudine, nella nostra miseria, cerchiamo di usare gli altri, cerchiamo di sfuggire a noi stessi: mediante i divertimenti, gli dei, la conoscenza, ogni forma di fede, e l'identificazione. Questo è il nostro fine, conscio o inconscio, secondo il quale viviamo; vi è, al di là di esso, uno scopo più profondo e più ampio, che non sia quello della confusione, dell'acquisizione? E quello stato privo di sforzo ha qualche relazione con la nostra vita quotidiana?
Senza dubbio, esso non ha affatto tale relazione. Come potrebbe averla? Se la mia mente è confusa, torturata, se è solitaria, come potrebbe essere in relazione con qualche cosa che non le appartenga? La verità come può stare in relazione con la falsità, con l'illusione? Non vogliamo ammetterlo, poiché la nostra speranza, la nostra confusione, ci fa credere in qualcosa di più grande, di più nobile, che, diciamo, è in relazione con noi. Nella nostra disperazione cerchiamo la verità, sperando che scoprendola, la nostra disperazione verrà meno. Così possiamo vedere che una mente confusa, una mente oppressa dall'angoscia, una mente che non sia consapevole del proprio vuoto e della propria solitudine, non troverà mai ciò che è al di là di se stessa. Quel che è al di là della mente potrà nascere soltanto quando verranno espulse o comprese le cause della confusione e della miseria. Tutto ciò che ho detto, di cui ho parlato, è come capire se stessi, poiché senza conoscenza di sé il resto non esiste, il resto è solo illusione. Se possiamo comprendere l'intero processo di noi stessi, di momento in momento, allora vedremo che eliminando la nostra confusione, anche il resto nascerà. Allora, sperimentare quello avrà relazione con questo; ma questo non avrà mai una relazione con quello. Stando da questo lato del sipario, nel buio, come potremo avere esperienza della luce, della libertà? Ma quando si abbia, una volta sola, l'esperienza della verità, la si potrà mettere in relazione con questo stesso mondo in cui viviamo. Se non abbiamo mai conosciuto che cosa sia l'amore, ma soltanto dispute, miseria, conflitti continui, come potremo sperimentare quell'amore che non è nulla di tutto questo? Ma quando l'avremo sperimentato anche una volta sola, non dovremo affannarci a cercare la relazione. Allora l'amore, l'intelligenza funzionerà. Tuttavia, per sperimentare quello stato, dovrà cessare ogni conoscenza, tutte le memorie accumulate, tutte le attività identificate con il se, affinché la mente sia incapace di qualsiasi sensazione proiettata. Allora, sperimentandolo, vi sarà azione in questo nostro stesso mondo.
Senza dubbio è questo lo scopo dell'esistenza: andare al di là dell'attività, incentrata sul sé, della mente. Avendo sperimentato quella condizione, che la mente non può misurare, quella stessa esperienza comporterà una rivoluzione interiore. Allora, se vi è amore, non vi è alcun problema sociale. Quando vi è amore non vi è problema di nessuna specie. Proprio perché non sappiamo come amare abbiamo problemi sociali e sistemi filosofici sul modo di trattare i nostri problemi. Io dico che tali problemi non potranno venir mai risolti da alcun sistema, né di destra né di sinistra né di centro. Potranno essere risolti - la nostra confusione, miseria, autodistruzione - soltanto quando potremo sperimentare quella condizione, che non è proiettata dal sé.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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Sull'antico e il Nuovo - Jiddù Krishnamurti -
La prima ed ultima libertà.

Domanda: Quando L'ascolto, tutto mi sembra chiaro e nuovo. Ma quando sono a casa, l’antica, sciocca inquietudine si ripropone. Cos'è che non va dentro di me? 

Krishnamurti: Che cosa ha luogo in concreto nelle vostre vite? Vi è ininterrotta sfida e risposta. Questa è l'esistenza, questa è la vita, non è così? Una sfida e una risposta ininterrotta. La sfida è sempre nuova e la risposta è sempre antica. Ieri vi ho incontrati ed oggi tornate da me. Siete diversi, vi siete alterati, siete mutati, siete nuovi; ma serbo il quadro di voi quali eravate ieri. Perciò lascio che il nuovo si assorba nel vecchio. Non vi incontro di nuovo, ma ho il quadro di ieri, e dunque la mia risposta alla sfida è sempre condizionata. Qui, per l'occasione, cessate di essere bramini, cristiani, di alta casta e così via: dimenticate tutto. Semplicemente ascoltate, siete assorbiti, cercate di scoprire. Ma quando riprendete la vita quotidiana, tornate all'antico "me": tornate al lavoro, alla casta, al sistema, alla famiglia. In altre parole, il nuovo continua a restare assorbito nel vecchio, nelle antiche abitudini, costumi, idee, tradizioni, memorie. Il nuovo non esiste mai, perché affrontate sempre il nuovo mediante l'antico. La sfida è nuova; ma l'affrontate mediante l'antico. Il problema implicito in questa domanda è come liberare il pensiero dall'antico in modo da poter continuare ad esser nuovi. Quando si vede un fiore, quando si vede un viso, quando si vede il cielo, un albero, un sorriso, come lo si affronta in modo nuovo? Perché non lo affrontiamo in modo nuovo? Perché accade che l'antico assorba il nuovo e lo modifichi; perché il nuovo cessa quando tornate a casa? La risposta antica sorge da chi pensa. Chi pensa non è sempre antico? Dato che il vostro pensiero si fonda sul passato, quando affrontate il nuovo è chi pensa che lo affronta: è l'esperienza di ieri che la incontra. Chi pensa è sempre l'antico. Cosi torniamo al medesimo problema in modo diverso: come liberare la mente da, se stessa in quanto entità pensante? Come sradicare la memoria: non la memoria fattuale ma la memoria psicologica, cioè l'accumulazione dell'esperienza? Senza liberarsi dal residuo dell'esperienza, non potremo recepire il nuovo. Liberare il pensiero, esser liberi del processo del pensiero e affrontare, così, il nuovo, è difficile, non è così? perché tutte le nostre fedi, tutte le nostre tradizioni, tutti i nostri sistemi educativi sono un processo di imitazione, di copiatura, di memorizzazione, un processo che vien costruendo il magazzino della memoria. Quella memoria risponde continuamente al nuovo; la reazione di quella memoria la chiamano pensare, ed è quel pensiero che affronta il nuovo. Come è possibile, in questo modo, che il nuova sussista? Soltanto quando non vi è residuo di memoria può esservi novità, e quel residuo sussiste quando l'esperienza non è finita, non è conclusa, terminata, vale a dire quando l'intendimento dell’esperienza è incompleto. Quando l'esperienza e completa, non vi è residuo: è questa la bellezza della vita. L'amore non è residuo, l'amore non è esperienza, è una condizione dell'essere. L'amore è eternamente nuovo. Perciò il nostro problema è il seguente: si può continuare ad incontrare il nuovo, anche se si è tornati a casa? Senza dubbio lo si può. Per farlo, bisogna compiere una rivoluzione, nel pensiero, nel sentimento; sarete liberi soltanto quando qualsiasi reazione verrà compresa pienamente, non semplicemente considerata in modo casuale e gettata da parte. Vi sarà libertà rispetto all'accumularsi della memoria soltanto quando qualsiasi pensiero, qualsiasi sentimento sarà stato completato, pensato fino in fondo. In altri termini, quando qualsiasi. pensiero e sentimento sarà stato pensato fino in fondo, e concluso, vi sarà un termine e vi sarà uno spazio tra quel termine ed il successivo pensiero. In quell'intervallo di silenzio, vi è rinnovamento, e la nuova creatività nasce. Ciò non è teorico, non è poco pratico. Se si cerca di pensare qualsiasi pensiero e sentimento fino in fondo, si scoprirà che si tratta, di una cosa straordinariamente pratica nella nostra vita quotidiana, poiché in tal caso si sarà nuovi, e ciò che è nuovo perdura eternamente. Essere nuovi è creativo ed esser creativi significa essere felici. Un uomo felice non bada se e ricco o povero non gli importa a quale livello della società appartenga, o a quale paese. Non ha capi, né dei né tempi ne chiese perciò non ha dispute né inimicizia. Senza dubbio è questo il modo più pratico per risolvere le nostre difficoltà, in questo mondo di oggi pieno di caos. Ed è perché non siamo creativi nel senso in cui sto usando questa parola che siamo tanto antisociali a tutti i diversi livelli della coscienza. Per essere veramente efficaci e pratici nelle nostre relazioni sociali, nella nostra relazione con qualsiasi cosa, si deve essere felici; né vi può essere felicita se non vi è fine; non vi può essere felicità se perdura, il processo costante del divenire. Nel finire è rinnovamento, rinascita, una novità, una freschezza, una gioia. Il nuovo viene assortito nell'antico e l'antico distrugge il nuovo, finché vi è un background, finché là mente, chi pensa, resta condizionata dal proprio stesso pensiero. Per liberarsi dal background, delle influenze condizionanti, dalla memoria, occorre esser liberi rispetto alla continuità. Vi sarà continuità finché il pensiero ed i sentimenti non saranno terminati completamente. Un pensiero viene completato quando lo si persegue fino a suo termine ed in tal modo si pone termine a qualsiasi pensiero, a qualsiasi sentimento. L'amore non è un'abitudine, non é memoria; l'amore e sempre nuovo. Vi può essere l'incontro con il nuovo soltanto quando la mente è fresca; e la mente non lo è finché resta un residuo di memoria. La memoria è fattuale quanto psicologica. Non parlo della memoria fattuale, ma di quella psicologica. Finché 1'esperienza non sarà stata completamente intesa, vi sarà un residuo che sarà l'antico, che sarà il residuo di ieri la cosa che è passata; il passato assorbe sempre il nuovo e perciò lo distrugge. Soltanto quando la mente é libera dall'antico incontra tutto di nuovo; e in ciò vi è gioia.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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SULL' AZIONE SENZA IDEA - Jiddù Krishnamurti -
La prima ed ultima libertà

Domanda: Perché venga la Verità Lei patrocina un'azione senza idea. È possibile agire sempre senza idea, vale a dire senza finalità?

Krishnamurti: Che cos'è oggi la nostra azione? Che cosa intendiamo per azione? La nostra azione - ciò che dobbiamo fare o essere - si fonda sull'idea, non è così? È tutto ciò che sappiamo; abbiamo idee, ideali, promesse, formule diverse circa ciò che siamo e ciò che non siamo. Base della nostra azione è una ricompensa futura, o il timore della punizione. Lo sappiamo, non è vero? Tale attività è isolante, ci mura dentro noi stessi. Avete un'idea della virtù e secondo tale idea vivete, agite, in relazione. Per voi la relazione, collettiva o individuale, è azione in funzione di un ideale, della virtù, di una finalità e così via. Quando la mia azione si fonda su un ideale, cioè su un'idea - per esempio, "Devo essere coraggioso", "Devo seguire questo esempio", Devo essere caritatevole", Devo essere socialmente cosciente", e così via - tale idea configura la mia azione, ne è la guida. Tutti diciamo: "Ecco un esempio di virtù che devo seguire"; il che significa: "Devo vivere secondo tale esempio". Così l'azione si fonda su quell'idea. Tra azione ed idea, vi è uno spazio, una divisione, vi è un processo temporale. È così, non vi pare? In altre parole, non sono caritatevole, non amo, non vi è perdono nel mio cuore, ma sento che devo essere caritatevole. Così vi è un abisso tra ciò che sono e ciò che dovrei essere; tutti, continuamente tentiamo di gettare un ponte, su questo abisso. E’ questa la nostra attività, non vi pare?
Ora che cosa accadrebbe se l'idea non esistesse? Con un sol colpo, avremmo eliminato l'abisso, non vi sembra? Sareste ciò che siete. Voi dite: "Sono brutto, devo diventare bello; che devo fare?”, il che è un'azione fondata su un'idea. Dite: "Non sono compassionevole, devo diventarlo". Così introducete un'idea separata dall'azione. E perciò non vi è mai una vera azione fatta da ciò che siete, ma sempre un'azione fondata sull'ideale di ciò che sarete. Lo stupido dice sempre che diverrà intelligente. Sta lì e lavora, si sforza di diventare, non si ferma mai, non dice mai: "Sono stupido". Così la sua azione, fondata su un'idea, non è affatto azione.
Azione significa fare, muoversi. Ma quando avete un'idea, è solo l'ideazione che procede, è solo il processo del pensiero che continua in relazione all'azione. Se non ci fosse idea, che cosa accadrebbe? Siete ciò che siete. Siete privi di carità, non perdonate, siete crudeli, stupidi, sventati. Potete restare così? Se lo fate, guardate che cosa accade. Quando riconosco di non avere carità, di essere stupido, che cosa accade: essendo io consapevole che è così? Non vi è carità, non vi è intelligenza? Quando riconosco completamente, quando mi rendo conto che non è carità e non è amore, nel fatto stesso che vedo ciò che è, non vi è già amore? Non divento immediatamente caritatevole? Se vedo la necessità di ripulirmi, è semplicissimo, vado a lavarmi. Ma se c'è un ideale secondo il quale dovrei essere pulito, allora che cosa accade? Che rinvio la pulizia, oppure questa è superficiale.
L'azione fondata su un'idea è estremamente superficiale, non è affatto azione autentica, è puramente ideazione, cioè non è altro che il processo del pensiero, che prosegue.
L'azione che trasforma gli esseri umani, che comporta rigenerazione, redenzione, trasformazione - chiamate ciò come volete - non si fonda mai su un'idea. È un'azione che non fa riferimento a quanto seguirà, alla punizione o alla ricompensa. Una tale azione è fuori del tempo, perché la mente, cioè il processo del tempo, il processo che calcola, divide, isola, non vi entra.
Questo problema non si risolve facilmente. Molti di voi pongono domande ed aspettano una risposta: "si", oppure "no". È facile fare domande come: "Che cosa intende Lei?", e poi restarsene seduti ed aspettare che io spieghi; ma è assai più difficile trovare da voi la risposta, penetrare tanto profondamente e chiaramente nel problema, senza minimamente corromperlo, che il problema cessi di esistere. Può accadere soltanto quando la mente è realmente in silenzio, di fronte al problema. Il problema, se lo amate, è bello come il tramonto. Ma se vi ponete in antagonismo con esso, non lo comprenderete mai. La maggior parte di noi è in posizione       di antagonismo, perché siamo terrorizzati dal risultato, da ciò che può accadere se procediamo: così vanno perduti il significato e lo scopo del problema.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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Che cos'è il sé? - La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti

Sappiamo quel che intendiamo per "sé"? Con tale termine io intendo l'idea, la memoria, l'esito, l'esperienza, le forme diverse di intenzioni denominabili e non denominabili, lo sforzo conscio di essere o non essere, la memoria accumulata dell'inconscio, della razza, del gruppo, dell'individuo, del clan, e tutto questo insieme, sia esso proiettato all'esterno nell'azione o proiettato spiritualmente come virtù: l'impegno verso tutto questo è il sé. In esso è inclusa la competizione, il desiderio di essere. L'intero processo di tutto ciò è il sé; e quando ci troviamo di fronte ad esso, sappiamo in concreto che è una cosa del male. Uso intenzionalmente il termine "male", perché il sé divide: il sé è chiuso in se stesso; per quanto nobili siano, le sue attività separano ed isolano. Tutto questo ci è noto. E conosciamo pure quegli straordinari momenti in cui il sé non c'è, in cui vi è senso di sforzo, di fatica, e che si danno quando vi è amore.
A me pare importante comprendere in qual modo l'esperienza rafforzi il sé. Se facciamo sul serio, dovremmo comprendere questo problema: l'esperienza. Per esperienza che cosa intendiamo? Facciamo esperienza ininterrottamente, subiamo impressioni; e le traduciamo, e reagiamo, o agiamo, secondo esse; calcoliamo, tramiamo, e così via. Vi è da un lato il gioco costante tra quanto oggettivamente vediamo e la nostra reazione, e dall'altro il gioco tra la coscienza e le memorie inconsce.
In base ai miei ricordi reagisco a tutto ciò che vedo, a tutto ciò che sento. In questo processo di reazione a ciò che vedo, che sento, che conosco, che credo, si crea l'esperienza: non è così? L'esperienza è reazione, risposta a qualche cosa che si sia visto. Quando vi vedo, reagisco; e l'esperienza consiste nel dare un nome a tale reazione. Se non le do nome, quella reazione non è un'esperienza. Considerate le vostre reazioni e quanto si verifica intorno a voi. Non vi è esperienza, a meno che non vi sia un processo di denominazione che abbia luogo contemporaneamente. Se non vi riconosco, come posso fare l'esperienza di incontrarvi? Sembra un'osservazione semplice ed esatta. Non è forse un fatto? Vale a dire: se non reagisco secondo í miei ricordi, secondo il mio condizionamento, secondo i miei pregiudizi, come potrò sapere di aver avuto un'esperienza?
Si ha dunque la proiezione di vari desideri. Desidero essere protetto, godere interiormente di sicurezza; oppure desidero avere un maestro, un guru, un docente, un Dio; e sperimento ciò che ho proiettato; vale a dire, ho proiettato un desiderio che ha assunto forma, cui ho conferito un nome; a ciò reagisco. È la mia propria proiezione. È il mio proprio denominare. Quel desiderio che mi dà un'esperienza mi dice: "Ho esperienza"; "Ho incontrato il Maestro"; oppure "Non ho incontrato il Maestro". Voi conoscete l'intero processo del conferire all'esperienza un nome. È il desiderio, ciò che chiamate esperienza: non è così? Quando desidero il silenzio mentale, che cosa accade? Che cosa ha luogo? Vedo l'importanza di possedere una mente silenziosa, una mente in quiete, per diverse ragioni: perché le Upanisbad l'hanno detto, le sacre scritture l'hanno detto, i santi l'hanno detto, ed anch'io, talvolta, sento quanto sia bene essere nella quiete, poiché la mia mente seguita talmente a ciarlare tutto il giorno. Talvolta sento quanto è bello, quanto è piacevole possedere una mente che sia in pace, in silenzio. Il desiderio è, allora, di sperimentare il silenzio. Intendo avere una mente quieta, e così mi domando: "come potrò conseguirla?" Conosco ciò che questo o quel libro dice intorno alla meditazione ed alle varie forme di disciplina. Così, attraverso la disciplina, cerco di sperimentare il silenzio. Il sé, il "me" si è pertanto fissato nell'esperienza del silenzio.
Desidero intendere che cosa sia la verità; è questo il mio desiderio, il mio anelito; ed ecco conseguirne la mia proiezione di ciò che considero la verità, poiché sulla verità ho letto moltissimo; ho udito molte persone parlarne; le. scritture sacre l'hanno descritta. Io voglio tutto questo. Che cosa accade? Il desiderio stesso, l'esigenza stessa viene proiettata, ed io registro un'esperienza perché riconosco lo stato che ho proiettato. Se non lo riconoscessi, non lo chiamerei verità. Lo riconosco e lo sperimento; e tale esperienza conferisce al sé, al "me", energia, non è vero? così il sé si trincera entro l'esperienza. Allora dite: "io so", "il Maestro esiste", "Dio esiste", oppure "Dio non esiste"; ovvero affermate che un particolare sistema politico è giusto e che tutti gli altri non lo sono.
Così, l'esperienza rafforza sempre il "me". Quanto più vi trincerate entro l'esperienza, tanto più il sé si rafforza. Ne risulta che possedete una certa forza di carattere, una certa energia di conoscenza, di fede, che manifestate agli altri perché sapete che non sono bravi quanto voi, e perché avete il dono della penna o della parola, e lo adoperate abilmente. Dato che il sé agisce ancora, le vostre fedi, i vostri Maestri, le vostre caste, il vostro sistema economico, costituiscono tutti un processo di isolamento, e dunque comportano conflitto. Se, sotto questo riguardo, volete essere seri veramente, dovrete dissolvere interamente il processo dell'esperienza.
È possibile che la mente, il sé, non si proiettino, non desiderino, non sperimentino? Vediamo che tutte le esperienze del sé sono una negazione, una distruzione, eppure le definiamo azione positiva, non è vero? È quanto chiamiamo un modo positivo di vivere. Disfare questo processo è, ai vostri occhi, negazione. Avete ragione a questo proposito? È possibile per voi e me, in quanto individui, giungere alla radice, e capire il processo del sé? Vediamo, che cosa determina la dissoluzione del sé? I gruppi religiosi, o di altro tipo, hanno offerto il mezzo dell'identificazione. "Identificatevi con qualcosa di più grande, e il se scomparirà" - questo dicono. Ma senza dubbio 1'identificazione resta pur essa un processo del sé; ciò che è più grande di me, resta una proiezione del "me", che io sperimento e che, dunque, rafforza' il "me".
Tutte le varie forme di disciplina, di fede e di conoscenza altro non fanno, senza dubbio, che rafforzare il sé. È possibile trovare un elemento che dissolva, invece, il sé? Oppure la domanda è mal posta?
È questo ciò che fondamentalmente vogliamo: vogliamo trovare qualche cosa, tale da dissolvere il "me": non è vero? Pensiamo che esistano diversi mezzi a tal fine: precisamente 1'identificazione, la fede e così via; ma sono mezzi posti tutti al medesimo livello; nessuno è superiore all'altro, perché tutti hanno un uguale potere di rafforzare il sé, il "me". E dunque: potrò vedere il "me" dovunque esso operi, vederne la forza e l'energia distruttiva? Qualsiasi nome gli conferisca, si tratta di una forza che isola, di una forza che distrugge, ed io desidero rinvenire una strada per dissolverla. Certamente dovete esservelo chiesto: "vedo 1`"io" che funziona ininterrottamente e che produce sempre angoscia, timore, frustrazione, disperazione, miseria, non soltanto in me, ma anche intorno a me. E possibile che quel sé si dissolva, non parzialmente, ma interamente? " È possibile giungere alla sua radice e distruggerlo? È questa l'unica strada per funzionare veramente: non è forse così? Non desidero essere intelligente parzialmente, ma intelligente in modo integrato. Molti fra noi sono intelligenti a strati, probabilmente voi lo siete in un modo ed io in un altro. Molti di voi sono intelligenti per quanto riguarda gli affari, altri per quanto riguarda il lavoro d'ufficio, e così via; le persone sono intelligenti in modi diversi; ma non siamo intelligenti in modo integrato. Essere intelligenti in modo integrato significa esser privi del sé. È possibile?
È possibile che il sé sia, adesso, completamente assente? Voi sapete che è possibile. Quali sono gli ingredienti, i requisiti necessari? Qual è l'elemento determinante? Potrò trovarlo? Quando pongo questa domanda: "potrò trovarlo"? senza dubbio sono persuaso che sia possibile; e pertanto ho già creato un'esperienza nella quale il sé sta per rafforzarsi, non è così? Comprendere il sé esige grandissima intelligenza, grandissima vigilanza, cautela, osservazione instancabile, in modo che non ci sfugga. Io, che sono veramente molto serio, intendo dissolvere il sé. Mentre lo dico, so che dissolvere il sé è possibile. Nel momento in cui dico "intendo dissolvere questa cosa", in quello stesso momento, ancora, sto sperimentando il sé; così il sé si rafforza. Com'è dunque possibile che il sé non sperimenti? Si può vedere che uno stato creativo non consiste affatto nell'esperienza del sé. Si ha creazione quando il "se" non c'è, poiché la creazione non è intellettuale, non appartiene alla mente, non proietta se stessa, ma è qualcosa al di là di qualsiasi esperienza. È possibile, dunque, che la mente sia in perfetta tranquillità, si trovi m una condizione nella quale non riconosca, non sperimenti, in uno stato ove possa aver luogo la creazione, il che significa in uno stato nel quale il "se" non esiste, il sé sia assente? Questo è il problema, non e così? qualsiasi movimento della mente, positivo o negativo, è un'esperienza che in realtà rafforza il "me". È possibile che la mente non riconosca? Ciò può verificarsi soltanto quando vi è silenzio completo: non però quel silenzio, che costituisce un'esperienza del sé, e che, pertanto, lo rafforza.
Esiste un'entità separata dal sé, che lo contempli e che lo dissolva? Esiste un'entità spirituale che si sostituisca al sé e la distrugga, che lo metta da parte? Noi riteniamo che esista: non è così? La maggior parte delle persone religiose pensa che un tale elemento esista. Il materialista dice: "è impossibile che il sé venga distrutto; può soltanto venir condizionato e limitato, politicamente, economicamente, e socialmente; possiamo mantenerlo fermamente entro un certo schema, e possiamo invece rompere lo schema; e pertanto si può far sì che esso conduca una vita ad alto livello, una vita morale, e non interferisca con nulla, ma segua lo schema sociale e funzioni come una pura macchina". Sappiamo bene tutto ciò. Vi sono altre persone, le cosiddette persone religiose, - che in realtà non sono religiose realmente, anche se così le chiamiamo - che dicono: "fondamentalmente, un tale elemento esiste. Se possiamo metterci in contatto con esso, dissolverà il sé". Un elemento che distrugga il sé, dunque, esiste? Considerate, vi prego, ciò che facciamo. Costringiamo il sé in un angolo. Se consentirete che vi si stringa in un angolo, vedrete che cosa accadrà. A noi
piacerebbe che esistesse un elemento al di fuori del tempo, che non coincida col sé, e che, secondo la nostra speranza, interverrà ed intercederà per distruggere il sé: e lo chiamiamo Dio. Ora, esiste una cosa del genere, che la mente possa concepire? Può esistere o non esistere: non è questo il punto. Ma quando la mente cerca una condizione spirituale al di fuori del tempo, che si metterà in azione allo scopo di distruggere il sé, non è questa forse un'ulteriore forma di esperienza, che rafforza il "me"? Quando si crede, non è appunto questo ciò che accade? Quando si crede che esista la verità, Dio, la condizione al di fuori del tempo, l'immortalità, non è questo un processo che rafforza il sé? È stato il sé a proiettare quanto, secondo ciò che voi sentite e credete, verrà a distruggere il sé. Perciò, avendo proiettato quest'idea di continuazione in uno stato senza tempo come entità spirituale, avete un'esperienza; e tale esperienza non fa che rafforzare il sé; e pertanto, che cosa avete fatto? Non avete realmente distrutto il sé, solo gli avete dato un nome diverso, una qualità differente; il sé c'è sempre, perché lo avete sperimentato. In tal modo la nostra azione, dall'inizio alla fine, è sempre la medesima: solo noi riteniamo che si evolva, che progredisca, che diventi sempre più bella; ma, se osservate interiormente, non è altro che la stessa azione, lo stesso "me" che funziona a diversi livelli, con etichette diverse, con diversi nomi.
Quando si osserva l'intero processo, le abilissime, straordinarie invenzioni, l'intelligenza del sé, il modo in cui esso si cela dietro l'identificazione, la virtù, l'esperienza, la fede, la conoscenza; quando si osserva che la mente si muove in circolo, in una gabbia da lei stessa costruita, che cosa accade? Quando se ne è consapevoli, del tutto consci, allora non ci si sente forse in una quiete straordinaria, non per costrizione, non per ricompensa, non per timore? Quando si riconosce che qualsiasi movimento della mente è puramente una forma per rafforzare il sé, quando lo si osserva, lo si vede, quando se ne è completamente consci nell'azione, quando si è giunti a questo punto - allora si vede che la mente, essendo in una quiete profonda, non ha il potere di creare. Tutto ciò che la mente crea sta in un circolo, che è il campo del sé. Quando la mente non sta creando, vi è creazione, che non è un processo fondato sul riconoscimento.
La realtà, la verità, non sono da riconoscere. Perché la verità venga, la fede, la conoscenza, l'esperienza, il perseguimento della virtù, tutto ciò deve scomparire. La persona virtuosa che sia consapevole di perseguire la virtù non troverà mai la realtà. Potrà essere una persona estremamente per bene; ma ciò è del tutto diverso dall'essere un uomo della verità, una persona che comprende. Per l'uomo della verità, la verità è nata. Un uomo virtuoso è un uomo giusto, e un uomo giusto non potrà mai intendere che cosa sia la verità, perché la virtù è per lui la copertura del sé, il rafforzamento del sé, perché egli persegue la virtù. Quando dice "devo liberarmi dall'avidità", lo stato di non-avidità che sperimenta non fa che rafforzare il sé. Ecco perché è tanto importante esser poveri; non soltanto poveri nelle cose di questo mondo, ma poveri anche di fede e di conoscenza. Chi possieda i beni del mondo, o chi sia ricco di conoscenza e di fede, non conoscerà mai altro che il buio, e sarà centro di ogni equivoco e miseria. Ma se voi ed io in quanto individui, possiamo vedere tutto questo funzionamento del sé, allora sapremo che cosa sia l'amore. Vi assicuro che è questa l'unica riforma che abbia la possibilità di cambiare il mondo. L'amore non è il sé; il sé non può riconoscere l'amore. Voi dite: "io amo"; ma allora, nel momento stesso in cui lo dite, nella stessa esperienza di esso, l'amore non è. Invece, quando si conosce l'amore, il sé non è. Quando vi è amore, il sé non c'è.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

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Che cosa cerchiamo?
Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà

Cos'è quel che cerca la maggior parte di noi? Di che cosa ha bisogno ciascuno di noi? Specialmente in questo mondo irrequieto, dove ciascuno cerca di trovare una qualche forma di pace, una qualche forma di felicità, un rifugio, senza dubbio è importante, non è vero? Trovare che cosa si cerchi, che cosa ci si sforzi di scoprire. Probabilmente moltissimi tra noi cercano una qualche forma di felicità, una qualche forma di pace; in un mondo oppresso dall'inquietudine, dalle guerre, dalla competizione, dalla lotta, abbiamo bisogno di un rifugio ove sia un po' di pace. Penso sia questo, ciò che vuole la maggior parte di noi. Così lo perseguiamo, andiamo da una guida all'altra, da un'organizzazione religiosa all'altra, da un maestro all'altro.
Ora, stiamo cercando la felicità, oppure stiamo cercando una remunerazione di qualche tipo, dalla quale contiamo di trarre la felicità? Vi è differenza tra felicità e remunerazione. È possibile cercare la felicità? Forse si può trovare remunerazione; ma certo non è possibile trovare felicità. La felicità è un derivato: è il sottoprodotto di qualche cosa d'altro. Cosí, prima di affidare la mente e il cuore a qualcosa che esige tanto impegno, attenzione, pensiero, tanta accuratezza, dovremo trovare, non è vero? che cosa stiamo cercando: se sia felicità, o remunerazione. Temo che la maggior parte di noi cerchi remunerazione. Abbiamo bisogno di essere remunerati, abbiamo bisogno di trovare, al termine della nostra ricerca, un senso di pienezza.
Dopo tutto, se si cerca la pace la si può trovare molto facilmente. Si può dedicarsi ciecamente ad una causa qualsiasi, a un'idea, e trovarvi un rifugio. Senza dubbio però, ciò non risolve il problema. Il puro isolamento entro "un'idea che ci segreghi in sé, non ci libera dal conflitto. Così dobbiamo trovare, non è forse vero? che cosa, tanto interiormente che esteriormente, sia necessario a ciascuno di noi. Se avremo chiaro ciò, non dovremo andare da nessuna parte, da nessun maestro, da nessuna chiesa, da nessuna organizzazione. Pertanto la nostra difficoltà è aver chiaro, in noi stessi, quale sia la nostra intenzione: non è vero? È possibile averlo chiaro? E questa chiarezza può darcela la ricerca, il tentativo di scoprire che cosa dicano gli altri, dal maestro al predicatore che parla nella chiesa dietro l'angolo? Si deve veramente andare da qualcuno, per trovarla? Eppure è questo, quel che facciamo: non è vero? Leggiamo innumeri libri, partecipiamo a infiniti incontri e discussioni, aderiamo alle più svariate organizzazioni: cercando così di trovare un rimedio alla lotta, alla miseria della nostra vita. Oppure, se non facciamo tutto ciò, pensiamo di aver trovato; vale a dire, affermiamo che un'organizzazione particolare, un particolare maestro, un libro particolare ci soddisfano, in esso abbiamo trovato tutto ciò che ci serve; e in esso rimaniamo, cristallizzati e murati.
Non cerchiamo forse, in tutta questa confusione, qualche cosa di stabile, di permanente, qualche cosa che chiamiamo realtà, Dio, verità, quel che volete? - il nome non importa, senza dubbio la parola non è la cosa. Perciò non facciamoci irretire dalle parole: lasciamolo ai conferenzieri di professione. Vi è, non vero? una ricerca di qualcosa di durevole, in molti di noi: qualcosa cui ci si possa aggrappare; qualcosa che ci dia una fiducia, una speranza, un entusiasmo duraturo, una certezza che resista, perché in noi stessi siamo tanto insicuri. Non conosciamo noi stessi. Sappiamo molto sui fatti, quel che hanno detto i libri; ma,non conosciamo noi stessi, non abbiamo un'esperienza diretta.
E cos'è, ciò che chiamiamo durevole? Cos'è ciò che cerchiamo, che vogliamo, o che contiamo ci dia la durevolezza? Non stiamo cercando una felicità che duri, una ricompensa che duri, una certezza che resti?
Desideriamo qualcosa che duri per sempre, che ci compensi. Se ci spogliamo di tutte le parole e di tutte le frasi, e guardiamo in concreto, è questo, ciò che vogliamo. Vogliamo un piacere durevole, una remunerazione durevole: che chiamiamo verità, Dio, o quel che volete.
Benissimo: vogliamo il piacere. Forse metterla in questo modo è metterla troppo crudamente: ma è questo, che veramente vogliamo: conoscenza che ci dia piacere, esperienza che ci dia piacere, ricompensa che non svanisca 1'indomani. E abbiamo sperimentato diverse ricompense, e sono tutte appassite: e speriamo ora di trovare una ricompensa permanente nella realtà, in Dio. Senza dubbio è questo che tutti noi cerchiamo: intelligenti e sciocchi, teorici e persone qualsiasi che cerchino qualcosa. Esiste una ricompensa durevole? Esiste qualche cosa che durerà?
Ora, se cercate una remunerazione che duri, chiamandola Dio, o verità, o quel che volete - il nome non conta - senza dubbio dovrete comprendere, non è vero? la cosa che cercate. Quando dite "cerco la felicità eterna" - Dio, o la verità, o quel che volete - non dovrete pure intendere quella cosa stessa che cerca, il cercatore stesso? Poiché può darsi che non esista qualcosa come la sicurezza permanente. la felicità eterna. Può darsi che la verità sia qualche cosa di completamente diverso; ed io penso che sia profondamente diversa da ciò che si può vedere, concepire, formulare. Perciò, prima di cercare qualche cosa che duri, non è, ovviamente, necessario comprendere il ricercatore? Il ricercatore è forse diverso da ciò che cerca? Quando dite "cerco la felicità", il ricercatore è forse diverso da ciò che cerca? Il pensatore è diverso dal pensiero? Non sono forse un fenomeno unico, anziché processi separati? Perciò è essenziale, non vi pare? intendere il ricercatore, prima di cercare di scoprire che cosa egli ricerchi.
Siamo così giunti al punto in cui ci domandiamo, con vera serietà e profondità, se la pace, la felicità, la realtà, Dio, o quel che volete, possano esserci dati da qualcun altro. Questa ricerca incessante, quest'ansia, può darci quel senso straordinario di realtà, quel modo creativo di essere, che giunge quando realmente comprendiamo noi stessi? La conoscenza di sé viene attraverso la ricerca, seguendo qualcun altro, appartenendo a qualche organizzazione particolare, leggendo libri e così via? Dopo tutto è questo il problema chiave. non è così?: che, finché non avrò compreso me stesso, non avrò base per il mio pensiero, e tutta la mia ricerca sarà vana. Posso rifugiarmi nelle illusioni, posso sfuggire alla competizione, alla lotta, al conflitto; posso adorare un altro; posso cercare la mia salvezza attraverso qualcun’ altro. Ma finché sarò ignorante su me stesso, finché non sarò consapevole del processo totale di me stesso, non avrò base per pensare, per amare, per agire.
Ma questa è l'ultima cosa che, appunto, vogliamo: conoscere noi stessi. Senza dubbio è l'unico fondamento sul quale possiamo costruire. Ma, prima di poter costruire, prima di poter trasformare, prima di poter condannare o distruggere, dobbiamo conoscere ciò che siamo. Metterci a cercare, a cambiare guide, guru, praticare lo yoga, mormorare preghiere, adempiere ai riti, seguire Maestri e così via, è del tutto inutile: no? Non ha significato, anche se coloro stessi che seguiamo ci dicono "esaminate voi stessi"; perché' ciò che noi siamo, è il mondo. Se siamo meschini, gelosi, vani, cupidi, questo appunto è ciò che creiamo intorno a noi, quésto è la società nella quale viviamo.
A me sembra che, prima di metterci in viaggio per trovare la realtà, per trovare Dio, prima di poter agire, prima di poter avere qualsiasi rapporto l'uno con l'altro, nel che consiste la società, è essenziale cominciare col comprendere noi stessi. Ritengo veramente saggio chi sia assorbito interamente, anzitutto, da questo, e non dal modo di conseguire una meta particolare; perché, se voi ed io non comprenderemo noi stessi, come potremo, agendo, provocare una trasformazione nella società, nei rapporti con gli altri, in qualsiasi cosa facciamo? E ciò non significa, è ovvio, che la conoscenza di sé sia contrapposta, o isolata, rispetto alla relazione con gli altri. Non significa, è ovvio, sottolineare il me, l'individuale, come opposto alla massa, come opposto ad un altro.
Ora, senza conoscere voi stessi, senza conoscere il vostro proprio modo di pensare e la ragione per la quale fate certe cose, senza conoscere il background del vostro proprio condizionamento e i motivi per i quali nutrite certe fedi sull'arte e la religione, sul vostro paese e il vostro vicino e su voi stessi, in qual modo potrete veramente pensare ad una qualsiasi cosa? Se non conoscete il vostro background, se non conoscete la sostanza del vostro pensiero e donde esso provenga, senza dubbio la vostra ricerca è profondamente futile, e la vostra azione non ha alcun significato. Non vi pare? E che siate americano o indù, o quale sia la vostra religione, non ha ugualmente alcun significato.
Prima di poter scoprire qual è lo scopo ultimo della vita, che cosa significhi tutto - guerre, rivalità nazionali, conflitti, tutto questo guazzabuglio - dovremo cominciare da noi stessi: non è forse vero? Suona tanto semplice, ma è estremamente difficile. Per seguire se stessi, per vedere il modo in cui funziona il proprio pensiero, è necessario essere straordinariamente attenti, sempre piú attenti, cosí che, quando si comincia ad essere sempre più attenti ai meandri del proprio modo di pensare, delle proprie reazioni, dei propri sentimenti, si comincia pure a possedere una consapevolezza maggiore non soltanto di se stessi, ma anche di un altro con cui si stia in rapporto. Conoscere se stessi è studiarsi nell'azione, che è relazione. La difficoltà è che siamo troppo impazienti; vogliamo riuscire, vogliamo raggiungere uno scopo, e così non abbiamo né il tempo né l'occasione di concederci l'opportunità di studiare, di osservare. Alternativamente ci siamo dedicati a varie attività - guadagnarci la vita, allevare bambini - oppure abbiamo assunto certe responsabilità nelle più svariate organizzazioni; e ci siamo impegnati in tanti modi diversi, che abbiamo ben poco tempo per riflettere su noi stessi, per osservare, per studiare. Così, in realtà, la responsabilità della reazione dipende da noi stessi, e non da un altro. Ricercare dei guru, ed i loro sistemi, per tutto il mondo, leggere i libri più recenti su questo e su quello, e via discorrendo, a me pare terribilmente vuoto, terribilmente futile: perché potrete girare tutta la terra, ma a voi stessi dovrete ritornare. E, poiché per la maggior parte siamo totalmente inconsapevoli di noi stessi, è estremamente difficile cominciare a vedere chiaramente entro il processo del nostro pensiero, del nostro sentimento, del nostro agire.
Più conosceremo noi stessi, più vi sarà chiarezza. La conoscenza di sé non ha limite: non si raggiunge una meta, non si perviene ad una conclusione. È un fiume che non ha fine. E man mano che lo si studia, man mano che sempre più vi si penetra, si trova pace. Soltanto quando la mente è tranquilla - attraverso la conoscenza di sé, e non mediante un'autodisciplina imposta - soltanto allora, in quella tranquillità, in quel silenzio, potrà venire alla luce la realtà. Soltanto allora vi sarà felicità; vi sarà azione creativa. Ed a me sembra che senza questo intendimento, senza quest'esperienza, limitarsi a legger libri, a partecipare alle conferenze, a fare propaganda, sia del tutto infantile: un puro agire, senza troppo significato; mentre se si giunge a comprendere se stessi, e a raggiungere così quella felicità creativa, quella esperienza concreta di qualche cosa che non appartiene alla mente, allora forse potrà verificarsi una trasformazione nella relazione immediata che ci riguarda e, pertanto, nel mondo in cui viviamo.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma



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SULL' AMORE
La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti



Domanda:
Che cosa intende per amore?

Krishnamurti: Scopriremo, mediante l'intendimento, che cosa l'amore non è, perché, essendo l'amore ignoto, dobbiamo giungervi scartando il noto. L'ignoto non potrà venire scoperto da una mente ricolma del noto. Ciò che stiamo per fare è scoprire i valori del noto, contemplare il noto; quando viene contemplato con purezza, senza condanna, la mente se ne libera; e allora sapremo che cosa sia l'amore. Perciò, è necessario accostarci all'amore negativamente, non positivamente.
Che cos'è l'amore per la maggior parte di noi? Quando diciamo di amare qualcuno, che cosa intendiamo? Intendiamo che possediamo quella persona. Da tale possesso nasce gelosia, poiché se perdo lui o lei, che cosa accade? Mi sento vuoto, perduto; e perciò legalizzo il mio possesso; tengo lui, o lei. Dal prendere, dal possedere questa persona, nascono la gelosia, la paura e tutti i conflitti innumerevoli che dal possesso scaturiscono. Senza dubbio un tale possesso non è amore: non vi pare?
Ovviamente l'amore non è sentimento. Essere sentimentali, essere emotivi, non è amore, poiché il sentimentalismo e l'emozione sono pure sensazioni. Una persona religiosa che pianga su Gesù e su Krishna, sul suo guru o su qualcun altro, è puramente sentimentale, ed emotiva. Indulge alle proprie sensazioni, il che è un processo del pensiero non è amore. Il pensiero risulta dalla sensazione, così che chi sia sentimentale, emotivo, non è possibile conosca l'amore. E ancora: non siamo noi emotivi e sentimentali? Il sentimentalismo, l'emotività, altro non sono se non una forma di auto espansione. Esser colmi di emozione ovviamente non è amore, poiché una persona sentimentale può essere crudele quando non si corrisponde ai suoi sentimenti, quando i suoi sentimenti non hanno sfogo. Una persona emotiva può essere spinta all'odio, alla guerra, al massacro. Chi sia sentimentale, pieno di lacrime per la sua religione, sicuramente non possiede amore. Il perdono è amore? Che cosa è implicito nel perdono? Voi mi insultate ed io mi risentisco, me lo ricordo; allora, in seguito sia alla costrizione che al pentimento, dico: "Ti perdono". In un primo tempo mi ricordo; poi respingo. Che cosa significa ciò? Che io resto pur sempre la figura centrale. Io resto importante, sono io che sto perdonando qualcuno. Finché sussisterà l'atteggiamento di perdonare, sarò io che sarò importante, e non l'uomo che, si suppone, mi ha insultato. Cosi quando accumulo risentimento e quindi lo rinnego, il che voi chiamate perdono, ciò non è amore. Chi ama ovviamente non ha inimicizia ed è perfettamente indifferente a tutte queste cose. La simpatia, il perdono, la relazione del possesso, la gelosia ed il timore: tutte queste cose non sono amore. Appartengono tutte alla mente, non è così? Finché la mente resta l'arbitro, non vi è amore, perché la mente arbitra soltanto mediante il possesso, e il suo arbitrato è puramente possesso in forme diverse. La mente potrà soltanto corrompere l'amore, non potrà farlo nascere, non potrà conferirgli bellezza. Si può scrivere una poesia sull'amore, ma ciò non è amore. Ovviamente non vi è amore quando non vi è rispetto reale, quando non rispettate l'altro, sia egli il vostro servo o il vostro amico. Non avete notato che non siete rispettosi, gentili, generosi con i vostri servi, con le persone che, si dice, stanno "sotto" di voi? Voi rispettate chi sta al di sopra di voi, il vostro capo, il miliardario, l'uomo che possiede un'enorme casa ed ha un titolo, l'uomo che può darvi una posizione migliore, un lavoro migliore, dal quale possiate ottenere qualcosa. Ma prendete a calci coloro che stanno sotto di voi, per loro scegliete un linguaggio speciale. Perciò ove non c'è rispetto, non c'è amore; ove non c'è misericordia, pietà, perdono, non c'è amore. E poiché la maggior parte di noi si trova in questa condizione, ebbene, noi non abbiamo l'amore. Non siamo né rispettosi né misericordiosi né generosi. Siamo possessivi, colmi di sentimentalismo e di emotività che possono prendere qualsiasi strada; uccidere, massacrare o unificarsi in base a qualche intento folle e ignorante. Cosi, come potrebbe esservi amore?
Potrete conoscere l'amore soltanto quanto tutto ciò sarà finito, soltanto quando non possiederete, quando non sarete meramente emotivi, con la vostra devozione ad un oggetto. Tale devozione è una supplica, cerca qualche cosa in forme diverse. Chi prega non conosce l'amore. Perché siete possessivi, perché perseguite un fine, un risultato, attraverso la devozione, la preghiera, il che vi rende sentimentali ed emotivi, naturalmente non vi è amore; ovviamente non c'è amore quando non c'è rispetto. Potete dirmi che nutrite rispetto, ma il vostro rispetto è per chi vi è superiore, è semplicemente il rispetto che nasce dal desiderare qualcosa, è il rispetto della paura. Se veramente sentiste rispetto, lo sentireste per gli inferiori come per coloro che chiamate i superiori; ma non avendolo, non vi è amore. Quanto pochi fra noi sono generosi, misericordiosi, quanto pochi perdonano! Siete generosi quando ciò vi conviene, siete misericordiosi quando potete aspettarvi qualche cosa in cambio. Quando tali cose scompaiono, quando tali cose non occupano più la vostra mente, e le cose della mente non riempiono il vostro cuore, allora vi è amore; e solo l'amore può trasformare la presente follia ed insania nel mondo: non i sistemi, non le teorie, né di destra né di sinistra. Amerete realmente quando non sarete invidiosi né avidi, quando nutrirete rispetto, quando sentirete misericordia e compassione, quando avrete considerazione per vostra moglie, i vostri figli ed il vostro vicino, e i vostri meno fortunati servi. All'amore non si può pensare, l'amore non si può coltivare, l'amore non si può praticare. La pratica dell'amore, la pratica della fraternità, resta pur sempre nell'ambito della mente, e perciò non è amore. Quando tutto questo è giunto a termine, nasce l'amore, e solo allora saprete che cos'è l'amore. Dunque l'amore non è quantitativo, ma qualitativo. Voi non dite: "amo tutto il mondo"; ma quando saprete come amare una sola persona, saprete come amare tutti. Ma poiché non sappiamo come amare una sola persona, il nostro amore per l'umanità è fallace. Quando si ama, non è questione di uno o di molti; vi è soltanto l'amore. Soltanto quando vi è amore tutti i nostri problemi potranno risolversi, e soltanto allora potremo conoscerne la beatitudine e felicità.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma



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SUL SESSO
La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti



Domanda:
Sappiamo che il sesso è un’esigenza fisica e psicologica, cui non si può sfuggire, e che esso sembra costituire la causa radicale del caos nella vita personale della nostra generazione. In qual modo si dovrà affrontare questo problema? 

Krishnamurti:
Perché mai, qualsiasi argomento tocchiamo, troviamo un problema? Abbiamo fatto un problema di Dio, abbiamo fatto un problema dell'amore, abbiamo fatto della relazione, del vivere un problema, e un problema abbiamo fatto del sesso. Perché? Perché qualsiasi cosa facciamo è un problema, un orrore? Perché soffriamo? Perché il sesso è diventato un problema? Perché ci assoggettiamo a vivere con tutti questi problemi, perché non vi poniamo termine? Perché non uccidiamo i nostri problemi anziché trascinarceli giorno dopo giorno, anno dopo anno? Senza dubbio il sesso è una questione di rilievo, ma vi è la questione primaria: perché trasformiamo la vita in un problema? Il lavoro, il sesso, il guadagnarsi il pane, il pensare, il sentire, lo sperimentare - ebbene, tutta faccenda del vivere - perché tutto ciò è un problema? Non è forse perché pensiamo sempre da un punto di vista particolare, fisso? Pensiamo sempre partendo da un centro verso la periferia, ma la periferia, per la maggior parte di noi, è lo stesso centro, e così qualsiasi cosa tocchiamo è superficiale. Ma la vita non è superficiale; essa esige che si viva completamente, e proprio perché non viviamo che superficialmente, conosciamo soltanto reazioni superficiali. Qualsiasi cosa si faccia in periferia, creerà inevitabilmente un problema, e questa è la nostra vita: viviamo alla superficie, e siamo contenti di viverci, con tutti i problemi che la superficie comporta. I problemi esisteranno finché vivremo in superficie, alla periferia, essendo la periferia il "me" e le sue sensazioni, che possono venir esternate e rese soggettive, che possono identificarsi con l'universo, con la patria e con qualsiasi altra cosa che la mente fabbrichi. 
Finché vivremo entro il campo della mente vi saranno complicazioni, e dovranno esservi problemi: questo è tutto ciò che sappiamo. La mente è sensazione, la mente è il risultato di sensazioni e reazioni accumulate, e tutto ciò che essa tocca è destinato a creare miseria, confusione, problemi senza fine. La mente è la causa reale dei nostri problemi, la mente che opera meccanicamente notte e giorno, consciamente od inconsciamente. La mente è una cosa estremamente superficiale, ed abbiamo passato generazioni intere, spendiamo le nostre intere vite, coltivando la mente, rendendola sempre più abile, sempre più sottile, sempre più astuta, sempre più disonesta e tortuosa, il che è evidente in tutte le attività della nostra vita. La natura stessa della nostra mente è di essere disonesta, tortuosa, incapace di affrontare i fatti, ed è questo che crea i problemi: è di questo che consiste il problema in se stesso. 
Che cosa intendiamo col problema del sesso? Si tratta dell'atto sessuale, o di un pensiero circa l'atto? Senza dubbio non si tratta dell'atto. L'atto sessuale per me non è un problema, non più che mangiare, ma se pensate circa il mangiare e qualsiasi altra cosa tutto il giorno, perché non avete altro da pensare, diventerà un problema. È l'atto sessuale il problema, ovvero il pensiero circa l'atto? Perché pensate ad esso? Perché vi costruite sopra, il che state ovviamente facendo? I cinematografi, le riviste, i romanzi, il modo in cui vestono le donne, tutto contribuisce a costruire il vostro pensiero sul sesso. Perché la mente lo costruisce, perché mai la mente pensa al sesso? Perché è divenuto un argomento fondamentale della vostra vita? Mentre tante cose chiedono, esigono la vostra attenzione, voi la dedicate completamente al pensiero del sesso. Che cosa accade, perché le vostre menti ne sono tanto occupate? Perché è un modo di evadere definitivamente, non è così? È un modo di dimenticarsi completamente. Per un momento, almeno in quell'istante, potete dimenticar voi stessi, e non vi è altro modo per dimenticare voi stessi. Qualsiasi altra cosa facciate nella vita accentua il "me", il sé. I vostri affari, la religione, gli dei, i vostri capi, i vostri atti economici e politici, le vostre evasioni, le vostre attività sociali, il vostro aggregarvi ad un partito e respingerne un altro, tutto ciò accentua e rafforza il "me". Vale a dire, vi è soltanto un atto nel quale non si accentua il "me", e pertanto quell'atto diventa un problema, non è così? Quando esiste soltanto un'unica cosa nella vostra vita, che è la strada per l'ultima evasione, per il completo dimenticar se stessi, sia pure per pochi secondi, vi aggrappate ad essa, perché è quell'unico momento nel quale si è felici. Qualsiasi altro argomento tocchiate diviene un incubo, una fonte di sofferenza e di pena, così vi aggrappate all'unica cosa che vi offre completa dimenticanza di voi stessi, che voi chiamate felicità. Ma quando vi aggrappate ad essa, anch'essa diviene incubo, poiché allora desiderate liberarvene, non intendete esserne schiavi. Così inventate, partendo pur sempre dalla mente, l'idea della castità, del celibato, e cercate di restare casti, di essere celibi, mediante la soppressione: operazioni tutte della mente, fatte per tagliarvi fuori dal fatto. Anche questo produce un'accentuazione particolare del "me", che si sforza di diventare qualche cosa, e così di nuovo siete catturati dal turbamento, dal travaglio, dallo sforzo, dal dolore. 
Il sesso diviene un problema straordinariamente difficile e complesso finché non si comprende la mente che pensa circa il problema. L'atto in se stesso non potrà mai essere un problema; esso è creato dal pensiero circa l'atto. L'atto lo salvaguardate; vivete liberamente, oppure vi rassegnate al matrimonio, trasformando così vostra moglie in una prostituta che sotto ogni apparenza è estremamente rispettabile, e siete soddisfatti delle cose come stanno. Senza dubbio il problema sarà risolto soltanto quando comprenderete l'intero processo e l'intera struttura del "me" e del "mio": mia moglie, mio figlio, i miei beni, la mia macchina, le mie conquiste, il mio successo; finché non comprenderete e risolverete tutto ciò, resterà il problema del sesso. Finché sarete ambiziosi, politicamente, religiosamente o in qualsiasi altro modo, finché sottolineerete il sé, sottolineerete colui che pensa, colui che sperimenta, nutrendolo di ambizione sia in nome di voi stessi che in nome del vostro paese, del vostro partito o di un'idea che chiamate religiosa; finché esisterà questa attività di auto-espansione, continuerete ad avere un problema sessuale. Da un lato vi create, vi nutrite, vi espandete, dall'altro cercate di dimenticarvi, di perdervi, sia pure per un solo istante. Come possono esistere insieme le due cose? La vostra vita è una contraddizione; sottolineare il "me", e dimenticare, insieme, il "me". Il sesso non è un problema; il problema è invece questa contraddizione nella vostra vita; e la contraddizione non potrà venir superata dalla mente, poiché la mente stessa è contraddizione. La contraddizione potrà venir capita soltanto quando comprenderete pienamente l'intero processo della vostra esistenza quotidiana. Andare al cinema e guardare donne sullo schermo, leggere libri che ne stimolano il pensiero, guardare le riviste con le loro figure seminude, il vostro modo di guardare le donne, le pupille furtive che incontrano le vostre: tutte queste cose incoraggiano la mente per vie devianti a sottolineare il sé; e nello stesso tempo voi cercate di essere gentili, amorevoli, teneri. Le due cose non possono stare insieme. Chi sia ambizioso, spiritualmente o in altro modo, non sarà mai privo di problemi, poiché i problemi cesseranno soltanto quando si dimenticherà il sé, quando il "me" non esisterà, e tale condizione di non-esistenza del sé non è un atto di volontà, non è una pura reazione. Il sesso diventa una reazione; quando la mente cerca di risolvere il problema, non fa che renderlo più confuso, più penoso, più conturbante. Non è l'atto il problema, ma la mente; la mente che dice di voler essere casta... La castità non appartiene alla mente. La mente può soltanto sopprimere le proprie attività, e la soppressione non è la castità. La castità non è una virtù, la castità non si può coltivare. L'uomo che coltiva l'umiltà, senza dubbio non è una persona umile, può chiamare umiltà il proprio orgoglio, ma resta un uomo orgoglioso; ed ecco perché si sforza di essere umile. L'orgoglio non potrà mai diventare umile, e la castità non è una cosa che appartenga alla mente: non si può diventare casti. Conoscerete la castità soltanto quando vi sarà amore, e l'amore non appartiene alla mente, non è una cosa della mente. 
Perciò il problema del sesso, che tortura tanta gente in tutto il mondo, non potrà risolversi finché non si comprenderà la mente. Non potrete por termine al pensare, ma, il pensiero verrà a termine quando il pensatore cesserà di esistere, e ciò accadrà soltanto quando si avrà l'intendimento dell'intero processo. La paura nasce quando vi è separazione tra chi pensa ed il suo pensiero; quando non vi è nessuno che pensi, allora soltanto non vi è conflitto nel pensiero. Ciò che è implicito non esige alcuno sforzo per capirlo. Chi pensa nasce attraverso il pensiero; allora chi pensa si esercita a configurare, a controllare i propri pensieri o a por termine ad essi. Il pensatore è un'entità fittizia, un'illusione della mente. Quando ci si rende conto del pensiero come di un fatto, non vi è in alcuna necessità di pensare al fatto. Se vi è consapevolezza, semplice, priva di scelta, quanto è implicito nel fatto comincerà a rivelarsi. Perché il pensiero come fatto avrà fine. Allora vedrete che i problemi di cui vi cibate nel cuore e nella mente, i problemi della nostra struttura sociale, potranno venire risolti. E allora il sesso non sarà più un problema, avrà il suo giusto posto, non sarà né una cosa impura né una cosa pura. Il sesso ha il suo luogo; ma quando la mente gli conferisce il posto predominante, diventa un problema. La mente conferisce al sesso un ruolo predominante perché non può vivere senza una qualche felicità, e così il sesso diventa un problema; quando la mente ne comprende l'intero processo, e giunge così a termine, vale a dire quando il pensatore cessa, allora vi è creazione ed è questa creazione che ci fa felici. Stare in uno stato di creazione è beatitudine, perché è dimenticanza di sé, nella quale non vi è reazione che nasca dal sesso. Non si tratta di una risposta astratta al problema quotidiano del sesso: si tratta dell’unica risposta. La mente rinnega l’amore e senza l’amore non vi è castità; ed è perché non vi è amore che trasformate il sesso in un problema.


Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma
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LA FUNZIONE DELLA MENTE
- La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti

Quando osservate la vostra mente, non solo osservate i cosiddetti livelli superiori di essa, ma anche l'inconscio; state guardando ciò che la mente in realtà fa, non è così? E’ questo l'unico modo nel quale si può investigare. Non dovrete sovrapporre quanto essa dovrebbe fare, come dovrebbe pensare o agire e così via; ciò condurrebbe soltanto ad avanzare pure ipotesi. Vale a dire, se dite che la mente dovrebbe essere questo o non dovrebbe essere quello, bloccate qualsiasi investigazione e qualsiasi pensiero; oppure, se citate una qualche autorità, anche in tal caso, non è vero? Bloccate il pensiero. Se citate Buddha, Cristo o X, Y, Z, terminerà qualsiasi ricerca, qualsiasi pensiero e qualsiasi investigazione. Perciò dovrete guardarvene. Se vorrete investigare insieme a me questo problema del sé, dovrete mettere da parte tutte queste sottigliezze della mente. Qual è la funzione della mente? Per scoprirla, dovrete conoscere che cosa la mente in realtà fa. Che cosa fa la vostra mente? È tutta, non è vero? Un processo di pensiero. Altrimenti, la mente non c'è.
Finché la mente non pensa, consciamente o inconsciamente, non vi è coscienza. Dovremo scoprire che cosa faccia, in rapporto ai nostri problemi, la mente che adoperiamo nella vita quotidiana, ed anche la mente della quale la maggior parte di noi non è consapevole. Dovremo guardare alla mente, come essa è, e non come dovrebbe essere. Ora che cos'è la mente e qual è il suo funzionamento? Essa è, in realtà, un processo di isolamento, non è così? Fondamentalmente, un processo di pensiero è appunto questo. E’ pensare in forma isolata, pur restando collettivi. Quando osservate il vostro proprio pensiero, lo vedrete come un processo isolato, frammentario. Pensate secondo le vostre reazioni, le reazioni della vostra memoria, della vostra esperienza, della vostra conoscenza, della vostra fede. Reagite, naturalmente, a tutto ciò. Se io dico che dev'esservi una rivoluzione fondamentale, voi reagite immediatamente. Obbiettate al termine "rivoluzione", nel caso che abbiate fatto buoni investimenti, siano essi spirituali o di altro tipo. Perciò la vostra reazione dipende da ciò che sapete, da ciò in cui credete, dalla vostra esperienza. Ciò è ovvio. Vi sono forme diverse di reazione. Voi dite "devo praticare la fraternità", "devo cooperare", "devo essere amichevole", "devo essere gentile", e così via. Che cos'è tutto ciò? Si tratta sempre di reazioni; ma la reazione fondamentale del pensare è un processo di isolamento. Guardate al processo della vostra mente, ciascuno di voi, il che significa che guardate al vostro agire, alla vostra fede, a ciò che sapete, alla vostra esperienza. E tutto ciò, non è forse vero? vi dà sicurezza. Vi dà sicurezza, dà forza al processo del pensare. Tale processo non fa che rafforzare il "me", la mente, il sé - sia che voi chiamiate quel sé elevato o vile. Tutte le nostre religioni, tutte le sanzioni sociali, tutte le leggi servono a sostegno dell'individuo, del sé individuale dell'azione separata; e, in opposizione a ciò vi è lo stato totalitario. Se guardate più in profondo entro l'inconscio, anche là vedrete al lavoro il medesimo processo. Là, infatti, noi siamo la collettività influenzata dall'ambiente, dal clima, dalla società, dal padre, dalla madre, dal nonno. Anche là vi è il desiderio di asserire, di dominare come individui, come "me". Non è dunque la funzione della mente, quale la conosciamo e quale la vediamo funzionare quotidianamente, un processo di isolamento? Non state cercando la salvezza individuale? State per essere qualcuno in futuro; oppure in questa stessa vita state per essere un grand'uomo, un grande scrittore. La nostra tendenza più importante è di separarci. Può la mente fare qualcosa di diverso? È possibile che la mente non pensi separatamente, in modo solipsistico, frammentario? E’ impossibile. Così, adoriamo la mente; la mente è straordinariamente importante. Non vedete, nel momento in cui siete un poco più acuti, un poco più attenti, e possedete una piccola informazione e conoscenza accumulata, quanto importanti divenite nella società? Vedete bene quanto voi adoriate coloro chi è intellettualmente superiore, gli avvocati, i professori, gli oratori, i grandi scrittori, i volgarizzatori! Avete coltivato l'intelletto e la mente.
La funzione della mente è di essere separata; altrimenti la vostra mente non c’è.
Avendo coltivato per secoli questo processo, scopriamo di non poter cooperare; possiamo soltanto essere costretti, spinti, guidati dall'autorità, dal timore, sia economico che religioso. Se questa è la situazione reale, non solo sul piano della coscienza, ma anche ai livelli più profondi, nei nostri motivi, nei nostri intenti, nei nostri fini, come potrà esservi cooperazione? Come potrà esservi una coesione intelligente per fare insieme qualche cosa? E poiché ciò è quasi impossibile, le religioni ed i partiti sociali organizzati costringono l'individuo a certe forme di disciplina. La disciplina diviene allora imperativa, se vogliamo raccoglierci insieme per fare insieme le cose. Finché non comprenderemo come trascendere questo pensiero che separa, questo processo che conferisce enfasi al "me" ed al "mio" sia in forma collettiva che individuale, non troveremo pace; avremo, sempre conflitto ininterrotto e guerra. Il nostro problema è come porre un termine al processo separatore del pensiero. Potrà mai il pensiero distruggere il sé, essendo il pensiero un processo di espressione verbale e di reazione? Il pensiero altro non è se non reazione; il pensiero non è creativo. Potrà un tale pensiero por termine a se stesso? È appunto ciò che stiamo cercando di scoprire. Quando io penso secondo uno schema come questo: "devo esser disciplinato", "devo pensare più accuratamente", "devo esser questo o quello", il pensiero sta costringendo, sollecitando, disciplinando se stesso ad essere qualche cosa o a non essere qualche altra cosa. Non è questo un processo di isolamento? E se è così, non corrisponde a quella intelligenza integrata che funziona come un tutto, e in base alla quale soltanto potrà esservi cooperazione. Come Giungerete a por termine al pensiero? O piuttosto, come il pensiero, che è isolato, frammentario e parziale, giungerà a termine? Come porrete la questione? La vostra cosiddetta disciplina, lo distruggerà? Ovviamente, in tutti questi lunghi anni non siete riusciti a farlo; altrimenti non sareste qui ad ascoltarmi. Vi prego, esaminate il processo del disciplinare, che altro non è se non un processo di pensiero, nel quale vi è soggezione, repressione, controllo, dominio: tutte cose che toccano 1'inconscio, il quale si impone tanto più quanto più si invecchia. Dopo aver cercato per tanto tempo a vuoto, dovreste aver scoperto che senza dubbio la disciplina non è il processo giusto per distruggere il sé. Il sé non verrà distrutto dalla disciplina, poiché la disciplina è un processo che serve invece a rafforzare il sé. Eppure, tutte le vostre religioni invocano la disciplina; tutte le vostre meditazioni, le vostre asserzioni si fondano su questo. E la conoscenza, distruggerà il sé? La fede lo distruggerà? In altri termini, qualsiasi cosa voi ora stiate facendo, qualunque sia l'attività in cui siete oggi impegnati per giungere alla radice del sé, potrà avere successo? Tutto questo non è forse uno spreco fondamentale, entro un processo di pensiero che è un processo di isolamento, di reazione? Che cosa fate quando fondamentalmente o profondamente vi rendete conto che, il pensiero non può por termine a se stesso? E cosa accade? Guardate dentro di voi. Quando si è completamente consapevoli di questo fatto, che cosa accade? Accade che si comprende come qualsiasi reazione sia condizionata e come, attraverso il condizionamento, non possa esservi libertà né all'inizio né alla fine: e la libertà è sempre all'inizio, e non alla fine. Quando vi rendete conto che qualsiasi reazione è una forma di condizionamento e che pertanto essa conferisce continuità, in maniere svariate, al sé, che cosa in realtà si verifica? A questo proposito è necessaria la massima chiarezza. La fede la conoscenza, la disciplina, l'esperienza, l'intero processo di ottenere un risultato od un fine, 1'ambizione, il diventare qualche cosa in questa vita o in una vita futura tutti questi sono processi di isolamento, fanno cioè parte di un processo che comporta distruzione miseria, guerre, e rispetto al quale non vi è fuga attraverso un'azione collettiva, per quanto voi possiate essere minacciati dai campi di concentramento e da cose del genere. Siete consapevoli di questo fatto? Qual è lo stato della mente che dice "è così", "questo è il mio problema", "questo è esattamente il punto in cui mi trovo, vedo che cosa possano fare la scienza e la disciplina, che cosa possa fare l'ambizione"? Senza dubbio, se vedete tutto ciò, un processo del tutto diverso è già al lavoro.
Vediamo le strade dell'Intelletto ma non vediamo la via dell'amore. La via dell'amore non si può trovare mediante l'intelletto. L’intelletto, con tutte le sue ramificazioni, con tutti i suoi desideri, ambizioni, finalità, deve scomparire perché l'amore possa nascere. Non sapete che, quando amate, cooperate e, non pensate a voi stessi? È questa la forma più alta di intelligenza: non quando amate come un'entità superiore o quando vi trovate in una buona posizione, il che altro non è se non paura. Quando sono presenti i vostri interessi acquisiti, non potrà esservi amore; altro non vi sarà se non il processo di sfruttamento, che nasce dalla paura. Così l'amore potrà nascere soltanto quando la mente sarà scomparsa. E a questo scopo dovrete intendere il processo totale della mente, la funzione della mente. Soltanto quando saprete come amarvi l'un l'altro potrà esserci cooperazione, potrà esservi un funzionamento intelligente, un raccogliersi insieme per risolvere qualsiasi problema. Soltanto allora sarà possibile scoprire che cosa è Dio, o che cos'è la verità. Oggi, stiamo cercando di trovare la verità mediante l'intelletto, l'imitazione: il che è idolatria. Soltanto quando scarterete completamente, mediante l'intendimento, l'intera struttura del sé, potrà nascere quanto è eterno, fuori del tempo, incommensurabile. Non potrete andare ad esso: esso verrà a voi.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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PUO' IL PENSIERO RISOLVERE I NOSTRI PROBLEMI?
- La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti

Il pensiero non ha risolto i nostri problemi e non ritengo che lo farà mai. Abbiamo contato sull'intelletto perché ci mostrasse la via per uscire dalla nostra complessività. Più abile, più sottile, più odioso è l'intelletto, maggiore è la varietà di sistemi, di teorie, di idee. Le idee non risolvono alcun problema umano; non l'hanno mai risolto né mai lo faranno. La mente non è una soluzione; la via del pensiero non è, ovviamente, la via per farci intendere il processo del pensare, e forse riuscire ad andare al di là: poiché quando il pensiero cesserà, forse saremo in grado di scoprire una via che ci aiuterà a risolvere i nostri problemi, non solo quelli individuali, ma anche quelli collettivi.
Il pensiero non ha risolto i nostri problemi. I sommi, i filosofi, i dotti, i capi politici, non hanno in realtà risolto nessuno dei problemi umani: che consistono nella relazione tra voi ed un altro, tra voi e me. Finora abbiamo usato la mente, l'intelletto, perché ci aiutassero ad investigare il problema, sperando di trovare una soluzione così: potrà mai il pensiero dissolvere i nostri problemi? Il pensiero, salvo che nel laboratorio o sul tavolo da disegno, non è sempre autoprotettivo, autoperpetuante, condizionato? La sua attività non è sempre incentrata su se stessa? E un simile pensiero potrà mai risolvere qualcuno dei problemi che il pensiero stesso ha creati? Potrà la mente, che ha creato i problemi, risolvere cose che essa stessa ha dato alla luce?
Senza dubbio pensare è reagire. Se vi faccio una domanda, voi rispondete secondo la vostra memoria, i vostri pregiudizi, la vostra educazione, il clima, insomma in base a tutto il background del vostro condizionamento; rispondete, pensate in funzione di esso.
Il centro di questo background è 1'"io" nel processo dell'azione. Finché quel background non viene compreso, finché quel processo di pensiero, quel sé che crea il problema, non viene compreso e non vi si pone fine, saremo costretti a stare in conflitto, con l'interno e con l'esterno, nei nostri pensieri, emozioni ed azioni. Nessuna soluzione di nessun tipo, per quanto eccellente, per quanto ben ponderata, potrà mai por fine al conflitto tra uomo ed uomo, tra voi e me. Rendendoci conto di questo, essendo consapevoli del modo in cui il pensiero scaturisce e da quale fonte esso scaturisca, domandiamo: "potrò mai esaurire il pensiero?".
Questo è bene un problema, non è così? Può il pensiero risolvere i nostri problemi? Pensando al problema, l'avete forse risolto? Un tipo qualsiasi di problema - economico, sociale, religioso
- è stato mai realmente risolto dal pensiero? Nella vostra vita quotidiana, quanto più pensate ad un problema, tanto più complesso, tanto più irrisolto, tanto più vago diviene. Non è forse così? Non è forse nella nostra vita pratica, quotidiana? Pensando a certi aspetti del problema, potrete vedere piú chiaramente il punto di vista di un'altra persona, ma il pensiero non può cogliere la completezza e la pienezza del problema: lo può vedere solo parzialmente, ed una risposta parziale non è una risposta completa, e pertanto non è una soluzione.
Quanto più pensiamo a un problema, quanto più investighiamo, analizziamo, discutiamo un problema, tanto più esso diviene complesso. Così, è possibile guardare al problema in modo completo, totale? In che modo? Poiché, a mio avviso, è questa la nostra massima difficoltà. I nostri problemi vanno moltiplicandosi - vi è pericolo imminente di guerra, vi è ogni tipo di disturbo alle nostre relazioni - e in qual modo potremo comprendere ciò totalmente, nel suo insieme? Senza dubbio ciò sarà risolubile soltanto quando potremo considerarlo nel suo insieme: non a compartimenti stagni, non ripartito. E quando sarà possibile? Sicuramente, soltanto quando sarà venuto a termine il processo del pensare: che ha la sua fonte nel’ ”io”, nel sé, nel background della tradizione, del condizionamento, del pregiudizio, della speranza e della disperazione. Potremo comprendere questo sé non analizzandolo, ma vedendo la cosa com'è, essendo consci di essa come di un fatto e non come di una teoria? Non, cioè, tentando di dissolvere il sé allo scopo di ottenere un risultato, ma vedendo l'attività del sé, del’ “io”, in azione continua? Possiamo guardarlo, senza compiere alcun movimento che lo distrugga o lo promuova? E’ questo il problema, non vi pare? Se, in ciascuno di noi, il centro dell’ “io” è non-esistente, col suo desiderio di potere, di posizione sociale, di autorità, di prosecuzione, di autopreservazione, senza dubbio i nostri problemi giungeranno a termine!
Il sé è un problema che il pensiero non può risolvere. Occorre una consapevolezza che non è del pensiero. Essere consapevoli, senza condannarle o giustificarle, delle attività del sé - soltanto esserne consapevoli - basta. Se si è consapevoli per scoprire in qual modo risolvere il problema, per trasformarlo, per giungere ad un risultato, si è ancora nel campo del sé, dell’ “io”. Finché cercheremo un risultato, sia attraverso l'analisi, sia attraverso la consapevolezza, attraverso l’analisi puntuale di qualsiasi pensiero, resteremo pur sempre entro il campo del pensiero, vale a dire entro il campo dell’ “io”, del “me”, dell'ego: chiamatelo come volete.
Finché sussiste l'attività della mente, senza dubbio non potrà esservi amore. Quando vi sarà amore, non avremo più problemi sociali. Ma l'amore non è qualcosa che si possa acquistare. La mente può
cercare di acquistarlo, come un nuovo pensiero, un aggeggio nuovo, un modo nuovo di pensare; ma la mente non può trovarsi in una condizione d'amore tanto a lungo, quanto occorrerebbe al pensiero per acquisire l'amore. Finché la mente cerca di trovarsi in uno stato di non-avídità, senza dubbio essa resta avida, non è così? Similmente, finché la mente ambisce, desidera e agisce allo scopo di trovarsi in una condizione nella quale vi sia amore, senza dubbio essa rinnega tale condizione, non è così?
Consideriamo questo problema, questo complesso problema del vivere, ed essendo consapevoli del processo del nostro proprio pensiero, e rendendoci conto che esso in realtà non porta da nessuna parte - quando veramente ci si renderà conto di ciò, allora senza dubbio ci si troverà in una condizione di intelligenza che non sarà individuale o collettiva. Allora il problema della relazione dell'individuo con la società, dell'individuo con la comunità, dell'individuo con la realtà, cesserà di esistere; poiché allora vi sarà soltanto intelligenza, la quale non è né personale né impersonale. È soltanto questa intelligenza, io credo, che può risolvere i nostri immensi problemi. Ciò non può costituire un risultato; nasce soltanto quando comprendiamo questo intero, totale processo del pensiero, non soltanto a livello conscio, ma anche ai livelli della coscienza più profondi e più nascosti. Per comprendere problemi di tale fatta è necessario possedere una mente estremamente pacificata, una mente del tutto serena, tale da poter guardare al problema senza interporre idee o teorie, senza la minima distrazione. È questa una tra le nostre difficoltà: poiché il pensiero è divenuto una distrazione. Quando intendo comprendere, osservare veramente qualcosa, non dovrò pensare ad essa: dovrò guardarla. Nel momento in cui comincio a pensare, ad avere idee ed opinioni intorno ad essa, mi trovo già in una condizione di distrazione, mi trovo già a guardare al di là della cosa che devo comprendere. Così il pensiero, quando si ha un problema, diventa una distrazione - intendendosi per pensiero un'idea, un'opinione, un giudizio, un confronto - che ci impedisce di guardare e pertanto di comprendere e risolvere il problema. Sventuratamente per la maggior parte di noi il pensiero ha acquistato un'importanza enorme. Voi dite: "come potrei esistere, essere, senza pensare? Come potrei avere una mente vuota?». Avere una mente vuota significa stare in una condizione di stupore, di idiozia, comunque la si chiami e la vostra reazione istintiva è di respingerla. Ma senza dubbio una mente che sia in perfetta calma, una mente che non sia distratta dal proprio stesso pensiero, una mente che sia aperta, può guardare al problema in modo veramente semplice e diretto. E questa capacità di guardare senza alcuna distrazione i nostri problemi, è l'unica soluzione. A questo fine occorre una mente calma, tranquilla.
Una tale mente non è un risultato, non è un prodotto fine a se stesso derivante da una pratica, dalla meditazione, dal controllo. Essa non nasce attraverso alcuna forma di disciplina o di costrizione o di sublimazione, nasce senza alcuno sforzo del "me", del pensiero; nasce quando comprendo l'intero processo del pensare - quando posso vedere un fatto senza la minima distrazione. In tale condizione di tranquillità, propria di una mente che è realmente calma, vi è amore. E soltanto l'amore può risolvere tutti i nostri problemi umani.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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CHI PENSA, E IL PENSIERO
- La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti

In tutte le nostre esperienze, vi è sempre chi sperimenta, chi osserva, chi si raccoglie sempre più in se stesso o chi nega se stesso. Non è questo un processo errato, non è forse un intento che non conduce a uno stato creativo? Se è un processo errato, è possibile eliminarlo completamente, rimuoverlo? Potrà accadere soltanto quando non sperimenterò al modo in cui sperimenta chi pensa, ma sarò cosciente della falsità del processo e mi renderò conto del fatto che vi è un'unico stato nel quale chi pensa coincide col pensare. Finché sperimenterò, finché sarò In divenire, necessariamente si avrà quest'azione dualistica; dovrà esservi il pensatore ed il pensiero, due separati processi all'opera contemporaneamente; non vi sarà integrazione, ma un centro che opererà mediante la volontà d'azione per essere o non essere: collettivamente, individualmente, nazionalmente e così via. A scala universale, il processo è questo. Finché uno sforzo si ripartisce tra lo sperimentatore e l'esperienza, un deterioramento è inevitabile. L'integrazione è possibile soltanto quando chi pensa non è più chi osserva. Vale a dire, ora sappiamo che esistono il pensatore ed il pensiero, l'osservatore e la cosa osservata, lo sperimentatore e l'esperienza; esistono due stati diversi. Miriamo a stabilire un ponte tra l'uno e l'altro. La volontà di agire è sempre dualistica. È possibile andare al di là di essa, che è fatta per separare, e scoprire uno stato nel quale quell'azione dualistica non abbia luogo? Lo potremo scoprire soltanto quando sperimenteremo direttamente una condizione nella quale il pensatore sia il pensiero stesso. Attualmente riteniamo che il pensiero sia diverso da chi pensa: ma è proprio così? Ci piace presumere che sia così, poiché in tal caso chi pensa può sviscerare i vari argomenti mediante il proprio pensiero. Sforzo di chi pensa è crescere o diminuire; e pertanto, in questa lotta, in quest'azione e della volontà, nel "diventare", vi è sempre un fattore di deterioramento; stiamo perseguendo un processo falso, non un processo vero. Vi è distinzione tra chi pensa ed il pensiero? Finché saranno separati, divisi, il nostro sforzo andrà perduto; stiamo perseguendo un processo falso, distruttivo, nel quale appunto consiste il fattore di deterioramento. Riteniamo che chi pensa sia qualcosa di separato rispetto al suo pensiero. Quando scopro di essere avido, possessivo, brutale, penso che non dovrei essere tutto ciò. Allora chi pensa cerca di alterare i propri pensieri, e pertanto fa uno sforzo per "diventare"; in tale processo forzoso persegue la falsa illusione che esistano due processi separati, mentre non ve n'è che uno. Credo che qui stia il fattore fondamentale di deterioramento. È possibile sperimentare la condizione nella quale vi è un'unica entità, e non due processi separati, lo sperimentatore e l'esperienza? Se è possibile, forse troveremo che cosa sia essere creativi, e quale sia la condizione in cui non possa darsi mai alcun deterioramento, qualunque sia la relazione in cui l'uomo si possa trovare. Sono avido. Io e l'avidità non costituiamo due stati diversi; vi è un unico stato, ed è l'avidità. Se sono consapevole di essere avido, che cosa accade? Mi sforzo di non esserlo, per ragioni sia sociologiche che religiose; tale sforzo si svilupperà sempre entro un piccolo, limitato cerchio; potrò estenderlo, tale cerchio, ma resterà pur sempre limitato. Perciò, ecco il fattore di deterioramento. Ma quando osservo la questione più da vicino e più in profondo, vedo che chi compie lo sforzo è la causa dell'avidità, che egli è l'avidità stessa; e vedo pure che non vi sono un "io" e l'avidità, esistenti separatamente; ma unicamente l'avidità. Se mi rendo conto di essere avido, del fatto che non vi è un osservatore avido, ma che io stesso sono l'avidità, allora tutto il problema è interamente diverso; e la nostra risposta sarà interamente diversa; allora, il nostro sforzo non sarà distruttivo. Che cosa farete quando tutto il vostro essere sia avidità, quando, qualsiasi azione facciate, sia avidità? Sventuratamente, non pensiamo mai secondo questa linea. Vi è 1'"io", l'entità superiore, il gendarme che controlla, domina. Secondo me tale procèsso è distruttivo. È un'illusione, e sappiamo perché la nutriamo. Mi ripartisco in uno strato elevato ed uno basso, per poter continuare. Se invece vi è soltanto, completamente, l'avidità, e non un "io" che agisce avidamente, se sono io stesso, interamente, avidità, in tal caso che cosa accadrà? Senza dubbio, vi è un processo diverso che contemporaneamente opera, vi è un problema diverso che nasce. Ed è questo problema, che è creativo: un problema nel quale non vi è alcun senso di un "io" che domina, che diviene, positivamente o negativamente. Dobbiamo attingere questo stato, se vogliamo essere creativi. In tale condizione, non vi è chi compia uno sforzo. Non è questione di esprimere parole, o di cercar di scoprire quale sia quella condizione: se ponete il problema in questi termini, la perderete e non la troverete mai. Ciò che importa è vedere che chi compie lo sforzo e l'oggetto per il quale egli lo compie, sono un'unica cosa. Vedere il modo in cui la mente si ripartisce in uno strato elevato ed uno basso - dove lo strato elevato è la sicurezza, l'entità eterna - pur rimanendo un processo di pensiero e pertanto di tempo, esige una penetrazione ed una vigilanza enormi. Se potremo comprenderlo come esperienza diretta, vedremo che un fattore del tutto diverso entrerà in gioco.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"

Copywrite
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma


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Sul significato della vita - La prima ed ultima libertà - Jiddù Krishnamurti.


Domanda: viviamo, ma non sappiamo perché. Per tanti di noi, sembra che la vita non abbia alcun significato. Ci può dire il significato e lo scopo del vivere?

Krishnamurti: ma perché mi pone questa domanda? Perché mi chiede di dirle il significato della vita, il fine della vita? Che cosa intendiamo per vita? La vita ha un significato, un fine? Il vivere in se stesso non è il proprio stesso fine, il proprio stesso significato? Perché siamo troppo insoddisfatti della nostra vita, perché la nostra vita è troppo vuota, volgare, monotona, perché continuiamo a fare la stessa cosa, per questo vogliamo qualcosa di più, qualcosa che vada oltre quanto stiamo facendo. Essendo tanto vuota, sorda, priva di significato, fastidiosa, intollerabilmente stupida la nostra vita quotidiana, affermiamo che la vita debba avere un significato maggiore, ed ecco perché Lei mi pone questa domanda. Senza dubbio, chi ha una vita ricca, chi vede le cose quali sono ed è appagato di ciò che ha, non è confuso; ha la mente chiara, e pertanto non domanda quale sia lo scopo della vita. Per lui, lo stesso vivere è inizio e fine. La nostra difficoltà è che, essendo la nostra vita tanto vuota, intendiamo trovarle uno scopo e ci battiamo per esso. Un tale scopo della vita può essere puramente intellettuale, senza la minima realtà; quando lo scopo della vita viene perseguito da una mente stupida e sorda, da un cuore vuoto, anche tale fine sarà vuoto. Perciò il nostro scopo è come render ricca la nostra vita, non di denaro e di tutto il resto, ma ricca interiormente: il che non è niente di tanto misterioso. Quando dite che scopo della vita è la felicità, oppure trovare dio, senza dubbio tale desiderio di trovare dio è un’evasione rispetto alla vita, e il vostro dio è semplicemente qualcosa che conoscete. Si può dirigere la propria via soltanto verso un oggetto noto; se si costruisce una scala fino alla cosa che chiamate dio, senza dubbio quello non è dio. La realtà può comprendersi soltanto vivendola, non evadendone. Quando si cerca nella vita uno scopo, in realtà si sta evadendo, e non si comprende che cos’è la vita. La vita è relazione, è azione nella relazione; quando non comprendo la relazione, o quando questa è confusa, cerco un significato più ampio. Perché le nostre vite sono tanto vuote? Perché siamo tanto soli, frustrati? Perché non abbiamo mai guardato entro noi stessi, né compreso noi stessi. Non ammetteremo mai di fronte a noi stessi che questa vita è tutto ciò che conosciamo e che per tanto andrebbe compresa pienamente e completamente. Preferiamo sfuggire a noi stessi, ed ecco perché cerchiamo uno scopo alla vita, distinto dalla relazione. Se cominciamo a comprendere l’azione, cioè la nostra relazione con la gente, col possesso, con le fedi e le idee, troveremo che la relazione ha in se stessa il suo premio. Non dobbiamo cercare. È come cercare l’amore. Cercandolo si può trovare forse l’amore? L’amore non si può coltivare. Troverete l’amore soltanto nella relazione, e non al di fuori, ed è perché non abbiamo amore che cerchiamo uno scopo alla vita. Quando vi è amore, che è la propria stessa eternità, allora non vi è ricerca di dio, poiché l’amore è dio. È perché le nostre menti sono gremite di tecnicismi e di mormorii superstiziosi che le nostre vite sono tanto vuote, ed ecco perché cerchiamo uno scopo al di là di noi stessi. Per trovare lo scopo della vita dobbiamo passare attraverso la porta di noi stessi; consciamente o inconsciamente evitiamo di guardare in faccia le cose quali sono in se stesse, e così esigiamo che dio ci apra una porta, al di là. Questa domanda circa lo scopo della vita viene posta soltanto da chi non ama. L’amore può trovarsi soltanto nell’azione, che è relazione. 

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà".

Copywrite:
1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma.

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Tempo - Sofferenza - Morte.

Sul vivere e sul morire - Jiddù Krishnamurti.

Saanen, 28 Luglio 1964


Vorrei parlarvi di qualcosa che comprende la totalità della vita, qualcosa che non è frammentario ma che abbraccia invece l'intera esistenza dell'uomo. Se vogliamo penetrare tale argomento con una certa profondità penso che dobbiamo smettere di farci intrappolare da teorie, credi e dogmi. Quasi tutti noi ariamo senza sosta il terreno della mente, ma sembra che non riusciamo mai a seminarlo. Analizziamo, discutiamo, facciamo in quattro ogni capello, ma non comprendiamo l'intero movimento della vita. Penso allora che ci siano tre cose che dobbiamo comprendere fino in fondo, se vogliamo cogliere tutto intero il movimento della vita. Si tratta del tempo, della sofferenza e della morte. Per comprendere il tempo, per abbracciare il pieno senso della sofferenza e stare in compagnia della morte abbiamo bisogno della chiarezza dell'amore. L'amore non è una teoria, ne un' ideale. O ami o non ami. Non può essere insegnato. Non si possono prendere lezioni di amore, ne esiste un metodo la cui pratica quotidiana ci conduca a sapere cos'è l'amore. Penso piuttosto che si possa arrivare all'amore in modo naturale, semplice e spontaneo, nel momento in cui si comprende davvero il senso del tempo, la straordinaria profondità della sofferenza e la purezza che viene con la morte. Forse dovremmo considerare, in modo effettivo, aldilà delle teorie o delle astrazioni, la natura del tempo, la qualità, ovvero la struttura della sofferenza e quella cosa straordinaria che chiamiamo morte. Queste tre cose non sono separate. Se comprendiamo il tempo, comprendiamo cos'è la morte e comprenderemo anche che cosa è la sofferenza. Se però consideriamo il tempo come qualcosa di distinto dalla sofferenza e dalla morte, e cerchiamo di trattarlo separatamente, il nostro approccio sarà frammentario, e quindi non abbracceremo mai la straordinaria bellezza e la vitalità dell'amore. Tratteremo del tempo non come un'astrazione ma come una realtà, del tempo come durata, come continuità dell' esistenza. C'è il tempo cronologico, fatto di ore e giorni che si estendono per milioni di anni, ed è proprio il tempo cronologico che ha prodotto quella mente con la quale operiamo. La mente è un prodotto del tempo in quanto continuità dell'esistenza, e il perfezionamento e l'affinamento della mente attraverso tale continuità viene chiamato progresso. Il tempo è anche quella durata psicologica che il pensiero ha creato per farne uno strumento di conquista. Usiamo il tempo per progredire, per conquistare, per divenire, per ottenere un certo risultato. Per la maggior parte di noi, il tempo è un trampolino di lancio verso qualcosa di assai più grande: per lo sviluppo di determinate facoltà, per il perfezionamento di una certa tecnica, per l'ottenimento di un fine, di una meta, più o meno encomiabile. In tal modo siamo giunti a pensare che il tempo sia indispensabile per comprendere cosa sia vero, cosa sia dio, casa ci sia dietro tutto il travaglio dell' uomo. Generalmente consideriamo il tempo come il periodo che intercorre tra il momento presente e un determinato momento nel futuro, e usiamo quel periodo per migliorare il carattere, per liberarci di una certa abitudine, per sviluppare un muscolo o un modo di pensare. Per due migliaia di anni la mente dei cristiani è stata condizionata a credere in un "salvatore", nell'inferno e nel paradiso; in oriente la mente ha subito un condizionamento del genere per un periodo assai più lungo. Pensiamo che il tempo sia indispensabile per ogni cosa che dobbiamo fare o capire. Quindi il tempo è diventato un peso, un' ostacolo all'effettiva percezione dei fenomeni; ci impedisce di percepire immediatamente la verità di qualcosa perchè pensiamo di doverle dedicare un po' di tempo. Diciamo: "domani, o tra un paio d' anni comprenderò questa cosa con chiarezza straordinaria". Nel momento in cui ammettiamo il tempo stiamo sviluppando l'indolenza, quella particolare forma di pigrizia che ci impedisce di percepire subito le cose per ciò che realmente sono. Pensiamo di aver bisogno di tempo per far breccia nel condizionamento imposto alla nostra mente dalla società con le religioni organizzate, i codici etici, i dogmi, l'arroganza e lo spirito competitivo. Pensiamo in termini di tempo perchè il pensiero è fatto di tempo. Il pensiero è la risposta della memoria, intendendo per memoria quel bagaglio che è stato accumulato, ereditato ed acquisito sia individualmente sia attraverso la propria razza, la comunità, il gruppo e la famiglia. Tale bagaglio è il risultato del processo cumulativo della mente, e la sua accumulazione ha richiesto tempo. Per molti di noi la mente è memoria, e ogni qual volta c'è una sfida, un quesito, è la memoria che risponde. E' simile a la risposta di un cervello elettronico, che funziona attraverso le associazioni. Poichè il pensiero è una reazione della memoria è per sua stessa natura creatura e creatore del tempo. Non dovete considerare ciò che vi dico come una teoria: non si tratta di qualcosa su cui dovete ragionare. Non dovete pensarci su ma piuttosto percepirlo, vedere perchè le cose stanno in tal modo. Non ho intenzione di penetrare tutti i dettagli più intricati, mi basta aver indicato gli elementi essenziali: o li vedete o non li vedete. Se avete seguito tutto ciò che è stato detto, non solo verbalmente, linguisticamente o analiticamente, se lo avete davvero visto così com'è, potrete comprendere in che modo il tempo rappresenti un' inganno. La domanda successiva è se il tempo si può fermare. Se siamo capaci di percepire l'intero processo del nostro stesso agire, con la sua profondità e la sua futilità, la sua bellezza e la sua bruttezza, non domani, ma immediatamente, ecco che questa stessa percezione diventa un'atto che distrugge il tempo. Se non comprendiamo il tempo non possiamo comprendere la sofferenza. Vorremmo farle apparire come due cose diverse, ma non lo sono affatto. Andare in ufficio, restare con la propria famiglia e avere figli non sono eventi accidentali, isolati. Al contrario sono tutti profondamente e intimamente collegati uno all'altro; senza la sensibilità che ci è donata dall'amore non possiamo percepire la straordinaria intimità di tali correlazioni. Per comprendere la sofferenza dobbiamo penetrare realmente nella natura del tempo e nella struttura del pensiero. Il tempo deve fermarsi, in caso contrario non faremo altro che ripetere le informazioni che abbiamo accumulato, proprio come un cervello elettronico. Finchè il tempo non si ferma, e cioè finchè il pensiero non cessa, c'è solo mera ripetizione, regolazione, una modificazione continua. Non c'è mai qualcosa di nuovo. Siamo gloriosi cervelli elettronici, forse un po' più indipendenti, ma ancora simili alle macchine nel nostro modo di funzionare. Per comprendere la natura della sofferenza e la fine della sofferenza è necessario comprendere il tempo, e comprendere il tempo equivale a comprendere il pensiero. Non si tratta di due fenomeni distinti. Nel comprendere il tempo ci si imbatte nel pensiero, e la comprensione del pensiero è la cessazione del tempo, e quindi della sofferenza. Se ciò ci è ben chiaro, possiamo osservare la sofferenza senza venerarla come fanno i cristiani. Di solito ciò che non capiamo o lo adoriamo o lo distruggiamo. Lo collochiamo in una chiesa, in un tempio, o ancora in un remoto angolo della nostra mente, e ne abbiamo soggezione, oppure lo calpestiamo e lo gettiamo via, magari lo sfuggiamo. Ma qui non facciamo nessuna di queste cose. Ci limitiamo a riconoscere che per millenni l'uomo ha lottato con il problema della sofferenza, senza essere mai stato in grado di risolverlo, e così si è assuefatto a esso, lo ha accettato, considerandolo un fattore inevitabile della vita. Non fare altro che accettare la sofferenza non soltanto è stupido ma ottunde la mente. La mente diventa insensibile, brutale, superficiale, e di conseguenza la vita diventa assai meschina, un semplice susseguirsi di lavoro e piacere. Si vive un' esistenza frammentaria, nei panni di un uomo d'affari, uno scienziato, un' artista, un sentimentalista, una cosiddetta persona religiosa, e via dicendo. Invece per capire, ed essere liberi dalla sofferenza, bisogna comprendere il tempo e in tal modo comprendere il pensiero. Non possiamo negare la sofferenza, ne scappare, sfuggirla nei passatempi, nelle chiese, nei credi organizzati; e non possiamo neppure accettarla e venerarla; e per non fare una qualsiasi di queste cose ci vuole una notevole attenzione, ovvero energia. La sofferenza è radicata nell'autocommiserazione, quindi per comprendere la sofferenza per prima cosa è necessario troncare decisamente ogni forma di autocommiserazione. Non so se vi siete mai resi conto di quanto vi sentite addolorati per voi stessi quando pensate: "sono solo", tanto per fare un'esempio. Nel momento in cui vi lasciate andare all'autocommiserazione avete creato il terreno in cui mette le radici la sofferenza. Per quanto vi sforziate di giustificare la vostra commiserazione, di razionalizzarla, d'ingentilirla e di mascherarla con i concetti, è sempre là, e vi corrompe fino al midollo. Quindi chiunque desideri comprendere la sofferenza deve iniziare liberandosi di quella trivialità brutale, egocentrica ed egoista che prende il nome di autocommiserazione. Potremo auto commiserarci perchè siamo ammalati, o perchè la morte ci ha  portato via una persona cara, oppure perchè non ci siamo realizzati e quindi ci sentiamo frustratri, incupiti; quale che sia la causa, l'autocommiserazione è la radice della sofferenza. Una volta liberati dall' autocommiserazione, possiamo confrontarci con la sofferenza senza venerarla, senza sfuggirla, ne doverle attribuire un significato sublime e spirituale, sostenendo per esempio che dobbiamo soffrire per trovare dio, il che è un completo controsenso. Solo una mente ottusa e stupida si adatta pazientemente alla sofferenza. Quindi nei confronti della sofferenza non dev' esserci alcun genere di accettazione, ma neppure una negazione. Se abbiamo abbandonato l'autocommiserazione, abbiamo privato la sofferenza di ogni sentimentalismo, di ogni forma di emotività che scaturisce dall'autocommiserazione. A quel punto possiamo osservare la sofferenza con la massima attenzione. Spero che non vi limitiate ad accettare verbalmente ciò che è stato detto, ma che lo sperimentiate con me man mano che andiamo avanti. Cercate di essere consapevoli del vostro modo di accettare ottusamente la sofferenza, del vostro modo di razionalizzarlo; rammentate le vostre scuse, l'autocommiserazione, il sentimentalismo, l'atteggiamento emotivo nei confronti della sofferenza, perchè tutto ciò non è altro che spreco di energia. Per comprendere le sofferenza dovete concederle tutta la vostra attenzione, e in quell'attenzione non c'è posto per le scuse, per il sentimento, per la razionalizzazione, non c'è posto per alcun genere di auto commiserazione. Credo di aver detto chiaramente che occorre dedicare tutta la nostra attenzione alla sofferenza. In tale attenzione non c'è uno sforzo per risolvere o comprendere la sofferenza. Ci si limita a guardare, a osservare. Qualsiasi sforzo di capire, razionalizzare o sfuggire alla sofferenza impedisce quello stato negativo di completa attenzione nell'ambito del quale il fenomeno che chiamiamo sofferenza può essere compreso. Non stiamo analizzando la sofferenza tramite tale investigazione analitica al fine di liberarcene, perchè questo è soltanto un' altro giochetto della mente. La mente analizza la sofferenza e quindi immagina di aver capito e di essersene liberata, il che è assurdo. Forse è possibile che ci liberiamo di un certo tipo di sofferenza, ma in definitiva la sofferenza riemergerà nuovamente in qualche altra forma. Stiamo considerando la sofferenza nel suo complesso, la sofferenza in quanto tale, che sia la vostra, la mia o quella di qualsiasi altro essere umano. Se vogliamo comprendere la sofferenza dobbiamo comprendere sia il tempo sia il pensiero. Dev' esserci un' assoluta consapevolezza di ogni via di fuga, di ogni forma di auto commiserazione, di ogni verbalizzazione, così che la mente possa raggiungere una condizione di quiete assoluta al cospetto di qualcosa che deve essere compreso. A quel punto non c'è più separazione tra l'osservatore e l'oggetto osservato. Non c'è più un io, l'osservatore, il pensatore, che è in una condizione di sofferenza e sta osservando proprio quella sofferenza, c'è soltanto lo stato di sofferenza. Questa condizione di sofferenza indivisa è qualcosa di indispensabile, perchè se ci confrontiamo con la sofferenza in qualità di osservatori creiamo un conflitto, che annebbia la mente e disperde energia, e quindi non c'è più attenzione. Quando la mente comprende la natura del tempo e del pensiero, quando l'autocommiserazione, il sentimento, l'emotività e tutto il resto sono stati sradicati, ecco che cessa ciò che ha creato tutta questa complessità, il pensiero, e non c'è più tempo; a quel punto siamo direttamente e intimamente in contatto con quella cosa che chiamiamo sofferenza. La sofferenza sussiste solo finchè c'è una fuga dalla sofferenza, un desiderio di allontanarsi da essa, di scioglierla oppure di venerarla. Tuttavia, quando non c'è nulla di tutto ciò perchè la mente è in contatto diretto con la sofferenza, e quindi si mantiene completamente silenziosa nei suoi confronti, finiamo per scoprire che la mente non sta affatto soffrendo. Allorchè la nostra mente è in completo contatto con la realtà della sofferenza, quella realtà stessa dissolve tutti quegli elementi del tempo e del pensiero che producono sofferenza. Giungiamo perciò alla cessazione della sofferenza. Ora, come possiamo capire quel fenomeno che chiamiamo morte, e che ci incute tanto timore? L'umo ha ideato molti percorsi tortuosi per occuparsi della morte, venerandola, negandola, afferrandosi a un'infinità di credi e così via. Tuttavia per comprendere la morte è senz' altro necessario ricominciare da capo, perchè in realtà non sappiamo nulla della morte, non vi pare? Forse abbiamo visto morire molte persone, e abbiamo osservato in noi stessi e in altri il sopraggiungere della vecchiaia con il deterioramento che la accompagna, sappiamo che la vita fisica può terminare a causa dell'invecchiamento, di un' incidente, una malattia, un' omicidio o un suicidio, tutta via non conosciamo la morte nello stesso modo in cui conosciamo il sesso, la fame, la credeltà, la brutalità. Non sappiamo cosa significhi realmente morire, e se non giungiamo a tale conoscenza la morte non ha alcun senso. Ciò di cui abbiamo paura è un' astrazione, qualcosa che non conosciamo. Non conosciamo la pienezza della morte, ne quali siano le sue implicazioni, e quindi la mente è spaventata, è spaventata dall'idea della morte, non dalla sua realtà, che non conosce. Cerchiamo di approfondire un po' questo punto. Se dovessimo morire all'istante, non avremmo tempo di pensare alla morte e di esserne spaventati. Tuttavia c'è un' intervallo tra il presente e il momento in cui sopraggiungerà la nostra morte, e durante quell'intervallo c'è tempo in abbondanza per preoccuparci e razionalizzare. Vorremmo poter trasportare sino alla prossima vita, ammesso che ce ne sia una, tutte le ansie, i desideri e la conoscenza che abbiamo accumulato, e quindi inventiamo teorie in proposito, oppure crediamo il qualche forma di immortalità. Per noi la morte è qualcosa di separato dalla vita. La morte è laggiù, mentre noi siamo qui, indaffarati a vivere, guidando un' auto, facendo l'amore, sperimentando la fame e le preoccupazioni, andando in ufficio, accumulando conoscenze, eccetera. Non vogliamo morire perchè non abbiamo ancora finito di scrivere il nostro libro, oppure perchè non sappiamo ancora suonare il violino con sufficente maestri. Così separiamo la morte dalla vita e diciamo: "ora capirò la vita e tra un po' anche la morte". Però le due cose non sono separate. E' questa la prima cosa da capire. La vita e la morte sono un' unica cosa, sono intimamente correlate, e non è possibile isolare una delle due e cercare di comprenderla separatamente dall' altra. Tuttavia questo è l' atteggiamento della moggior parte della gente. Separiamo la vita in compartimenti stagni indipendenti l' uno dall' altro. Se siamo economisti, l' economia è l' unica cosa di cui ci preoccupiamo, e del resto non sappiamo proprio nulla. Se siamo specializzati in otorinolaringoiatria, oppure in cardiologia, ci muoviamo in quel campo di conoscenza limitato per quarant' anni, ed è quello il nostro paradiso nel momento in cui muoriamo. Trattare la vita in modo frammentario vuol dire vivere in costante confusione, contraddizione e infelicità. Dobbiamo percepire la totalità della vita, e possiamo farlo solo se c'è calore, se c'è amore. L'amore è l' unica rivoluzione che potra produrre l' ordine. Non è una buona cosa accumulare una conoscenza sempre più vasta in matematica, medicina, storia, economia, e poi amalgamare tutti i frammenti: non ci servirà a niente. Senza amore, la rivoluzione conduce soltanto alla venerazione dello stato, o all' adorazione di un' immagine, o ancora a innumerevoli corruzioni tiranniche e alla distruzione dell' uomo. Allo stesso modo, quando la mente, spinta dalla paura, cerca di allontanare da se l'idea della morte e la separa dalla vita quotidiana, tale separazione non fa altro che generare olteriore paura e ansia, nonchè una proliferazione di teorie sulla morte. Per comprendere la morte dobbiamo comprendere la vita. Tuttavia la vita non è la continuità del pensiero, anzi è questa stessa continuità che nutre ogni nostra infelicità.

E allora, può la mente trasportare se stessa dal remoto all' immediato? Mi seguite? In realtà, la morte non è qualcosa di lontano, è qui e ora. E' proprio qui, mentre stiamo parlando, mentre ci stiamo divertendo, mentre ascoltiamo, mentre andiamo in ufficio. E' qui in ogni istante della vita, proprio come l' amore. Se appena riusciamo a percepire tale realtà, scopriamo che non c'è più nessuna paura della morte. Ciò di cui abbiamo paura non è il non conosciuto ma il perdere il cunosciuto. Abbiamo paura di perdere la nostra famiglia, di restare soli, senza compagnia; abbiamo paura del dolore della solitudine, di restare senza le esperienze e le cose che abbiamo accumulato. E' dal conusciuto che abbiamo paura di separarci. Il conosciuto è ricordare, ed è a tale ricordo che si afferra la mente. Tuttavia la memoria è soltanto un processo meccanico, casa che i computer stanno dimostrando in modo eccellente. Per comprendere la bellezza e la natura straordinaria della morte, dev' esserci libertà dal conosciuto. E' proprio nel morire al conosciuto che iniziamo a comprendere la morte, perchè in tal modo la mente viene rinvigorita e rinnovata, e no c'è paura. Quindi penetrare nella condizione che chiamiamo morte è possibile. Di conseguenza, dall' inizio alla fine, la vita e la morte sono un' unica cosa. L'umo saggio comprende il tempo, il pensiero e la sofferenza, e solo lui può capire la morte. La mente che muore ogni istante, senza mai accumulare, senza mai raccogliere le esperienze, è innocente, e quindi è continuamente il uno stato di amore.

Testo tratto dal libro "Sul vivere e sul morire".


Copywrite

1992 Krishnamurti Foundation Trusth Limited and Krishnamurti Foundation of America;
1998 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma.

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Sulla Guerra
- Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima verità.

Domanda: com'è possibile risolvere l'attuale caos politico e la crisi mondiale ???  Vi è qualcosa che l'individuo possa fare per impedire la guerra incombente???


Krishnamurti: la guerra è la proiezione spettacolare e sanguinosa della nostra vita di tutti i giorni: non è così?

La guerra non è che l'espressione esterna del nostro stato interiore, è una dilatazione della nostra azione quotidiana. é più spettacolare, è più sanguinosa e più distruttiva, ma è il risultato collettivo delle nostre attività individuali.
Perciò, voi ed io siamo responsabili della guerra e, che cosa possiamo fare per fermarla?
Ovviamente, la guerra che sempre incombe, non potrà venire impedita da voi o da me, perchè è già in movimento, ha già luogo, sebbene, per momento, prevalentemente a livello psicologico.
Poichè è già in movimento, non la si può fermare: i problemi sono troppi, troppo grandi e già compromessi.
Ma voi ed io, vedendo che la casa è in fiamme, possiamo comprendere la cause dell'incendio, allontanarcene e costruire in luogo nuovo, con materiali diversi ed incombustibili, che non produrranno altre guerre.
E' tutto ciò che possiamo fare.
Voi ed io possiamo vedere che cosa crei le guerre, e se abbiamo interesse a porvi fine, possiamo cominciare col trasformare noi stessi, che siamo la causa stessa delle guerre.
Una signora americana venne a trovarmi un paio di anni fa, durante la guerra. Mi disse che aveva perso il proprio figlio in italia e che aveva un'altro figlio, di 16 anni, che intendeva salvare; e così parlammo della cosa. Le suggerii che , per salvare suo figlio, doveva cessare di essere americana; doveva cessare di essere avida, doveva cessare di accumulare denaro, di perseguire il potere, il dominio, ed essere moralmente semplice: non meramente semplice negli abiti, nelle cose esteriori, ma nei suoi pensieri e sentimenti, nelle sue relazioni.
Ed ella disse: "questo è troppo. Lei mi chiede davvero troppo. Non posso farlo, le circostanze sono troppo potenti perchè io possa mutarle".
In questo modo ella fu responsabile della distruzione di suo figlio.
Possiamo controllare le circostanze, perchè le abbiamo create noi.
La società è il prodotto della relazione, della vostra e della mia insieme. Se mutiamo nel nostro rapporto, muterà la società; contare puramente sulla legislazione, sulla costrizione, sulla trasformazione della società esteriore, restando internamente corrotti, continuando internamente a perseguire il potere, la posizione, il dominio, significa distruggere l'esterno, per quanto esso sia stato costruito accuratamente e scientificamente.
Ciò che è all'interno travolgerà sempre l'esterno.
Che cosa causa la guerra: religiosa, politica o economica?
Ovviamente la fede, o nel nazionalismo, o in un' ideologia, oppure in un dogma particolare. Se non avessimo fede, ma buona volontà, amore e considerazione l'uno per l'altro, non vi sarebbero guerre. Ma siamo nutriti di fedi, idee e dogmi, e perciò alleviamo lo scontento. La crisi attuale è eccezionale, e come esseri umani o perseguiremo la strada del conflitto ininterrotto e delle guerre continue, risultato della nostra azione quotidiana, oppure scorgeremo le cause della guerra e volgeremo loro le spalle. Ovviamente ciò che causa la guerra è il desiderio di potere, di prestigio, di denaro; e anche la malattia chiamata nazionalismo, l'adorazione di una bandiera, e la malattia dell'organizzazione religiosa, l'adorazione di un dogma.
Tutte sono cause di guerra; se tu, come individuo , appartieni a qualcuna delle religioni organizzate, se tu sei avido di potere, se tu sei invidioso, sei costretto a produrre una società il cui risultato sarà la distruzione.
Così, una volta di più, dipende da voi e non dai capi: non dai così detti uomini di stato e così via. Dipende da voi e da me, ma sembra che non ci se ne renda conto. Se almeno una volta sentissimo realmente la responsabilità delle nostre azioni, come rapidamente porremmo termine a tutte le guerre, a questa miseria atroce! Ma ecco, siamo diversi. Abbiamo tre pasti al giorno, abbiamo il nostro lavoro, i conti in banca, piccoli e grandi, e diciamo: "per amor di dio, non ci disturbate, lasciateci in pace". Quanto più siamo in alto, quanto più ci occorre sicurezza, intoccabilità, tranquillità, tanto più vogliamo esser lasciati soli, mantenere le cose come stanno; ma come stanno non potranno rimanere, perchè nulla vi è che le mantenga, e tutto si disintegra. Non vogliamo affrontare queste cose, non vogliamo accettare il fatto che voi ed io siamo responsabili delle guerre. Voi ed io possiamo parlare di pace, tenere conferenze, sedere intorno ad un tavolo e discutere, ma all'interno, psicologicamente, vogliamo il potere e la posizione, è l' avidità che ci spinge. Intrighiamo, siamo nazionalisti, siamo legati a fedi e a dogmi, per i quali siamo pronti a morire e a distruggerci l'un l'altro. Pensate che uomini come voi e io posso avere la pace nel mondo? Per avere la pace, dovrete essere in pace; vivere in pace significa non creare antagonismi. La pace non è un'ideale. Secondo me un ideale non è altro che una via di fuga, un'evitare ciò che è, un contraddire ciò che è. Un ideale impedisce l'azione diretta su ciò che è. Per avere la pace dovremo amare, dovremo cominciare non col vivere una vita ideale, ma col vedere le cose quali sono ed agire su di esse, trasformarle. Finchè ciascuno di noi perseguirà la sicurezza psicologica, la sicurezza fisiologica di cui abbiamo bisogno, - cibo veste riparo - verrà distrutta.
Possediamo la sicurezza psicologica, che non esiste; e la perseguiamo, se lo possiamo, mediante il potere, la posizione, i titoli, i nomi: e questo distrugge la sicurezza fisica. Tutto ciò è ovvio, se lo guardate bene.
Per portare la pace nel mondo, per porre fine a tutte le guerre, occorre una rivoluzione entro l'individuo, in voi ed in me. La rivoluzione economica non ha significato senza questa rivoluzione interiore, poichè la fame è il risultato dello scarso assestamento delle condizioni economiche determinato dai nostri stati psicologici: avidità, invidia, cattiva volontà, voglia di possedere. Per porre fine all'angoscia, alla fame, alla guerra, occorre una rivoluzione psicologica e pochi di noi sono pronti ad affrontarla.
Parleremo di pace, proteggeremo leggi, creeremo nuove leghe, le nazioni unite e così via, e così via; ma non otterremo la pace, perchè non abbandoneremo la nostra condizione, la nostra autorità, il denaro, la proprietà, la nostra stupida vita. Contare sugli altri è assulutamente futile; gli altri non ci porteranno la pace. Nessun capo ci darà la pace, nessun governo, nessun esercito, nessun paese. Ciò che porterà la pace è una trasformazione interiore che comporterà un'azione esteriore. La trasformazione interiore non è l'isolamento, non è ritrassi dall'azione esterna. All'opposto, vi può essere azione retta soltanto quando vi è retto pensare, e non vi sarà retto pensiero se non vi sarà conoscenza di se. Senza conoscere noi stessi, non vi sarà pace.
Per porre fine alla guerra esteriore, dovremmo cominciare a porre fine alla guerra dentro noi stessi. Qualcuno, fra noi, assentirà dicendo "sono d'accordo", e uscirà di qui facendo esattamente la stessa cosa che ha sempre fatto da dieci o venti anni. Il vostro accordo è puramente verbale e non ha significato, poichè le miserie e le guerre del mondo non verranno certo impedite dal vostro annuire casuale. Vi porrete fine soltanto quando vi renderete conto del pericolo, vi renderete conto  della vostra responsabilità, quando non la lascerete a qualcun' altro. Se vi renderete conto della sofferenza, se vedrete l'urgenza di un' azione immediata e non rimanderete, allora vi trosformerete; la pace verrà soltanto qunado voi stessi sarete in pace col vostro vicino.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà".


Copywrite:

1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma.

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Relazione e isolamento
- Jiddù Krishnamurti - La prima ed ultima libertà

La vita è esperienza, esperienza di relazione.
Non si può vivere isolati; così la vita è relazione, e la relazione è azione.
E come si può possedere quella capacità di intendere la relazione, nella quale consiste la vita?
Relazione non significa, forse, oltre che comunione con la gente, anche intimità con le cose, e le idee? 
La vita è relazione, il che si esprime mediante il contatto con le cose, le persone e le idee. Comprendendo la relazione troveremo la capacità di affrontare pienamente, adeguatamente la vita.
Pertanto il nostro problema non è la capacità – poiché la capacità non è dipendente dalla relazione – ma piuttosto l’intendimento della relazione stessa, che naturalmente produrrà la capacità di corrispondervi, adeguarvisi, rispondervi prontamente.
Senza dubbio la relazione è lo specchio nel quale si scopre se stessi.
Senza relazione non si è; essere equivale ad essere in rapporto; essere in rapporto è esistere.
Si esiste soltanto in relazione: altrimenti non si esiste, l’esistenza non ha significato.
Non è perché pensate di essere che giungete ad esistere.
Esistete perché siete in relazione; ed è la mancanza di relazione che provoca conflitto.
Ora, non si comprende la relazione, perché la si impiega semplicemente come un mezzo per perseguire le nostre conquiste, le nostre trasformazioni, il nostro divenire.
Ma la relazione è un mezzo di autoscoperta, poiché la relazione equivale ad essere; essa è l’esistenza. Senza relazione, io non sono.
Per comprendermi, devo comprendere la relazione. La relazione è uno specchio nel quale posso vedere me stesso.
Tale specchio può essere distorto, oppure può essere “com’è”, riflettendo ciò che è.
Ma la maggior parte di noi nella relazione, in quello specchio, vedono solo ciò che preferirebbero vedere; non vedono ciò che è. Preferiamo idealizzare, evadere, vivere nel futuro piuttosto che comprendere quella relazione nel presente immediato.
Ora, se esaminiamo la nostra vita, il nostro rapporto con gli altri, vedremo che si tratta di un processo di isolamento.
In realtà non ci occupiamo l’uno dell’altro; e sebbene se ne parli moltissimo, in realtà non siamo interessati agli altri.
Restiamo in rapporto con gli altri finché tale rapporto ci offre un vantaggio, un rifugio, finché insomma offre soddisfazione. Ma nel momento in cui vi è disturbo nel rapporto, tale da produrre in noi disagio, scartiamo quel rapporto.
In altri termini, vi è rapporto soltanto finché se ne trae qualche remunerazione.
Ciò può sembrare sgradevole, ma se esaminerete la vostra vita da vicino, vedrete che è un fatto; ed evadere a un fatto significa vivere nell’ignoranza, attraverso la quale non si porrà mai alcun vero rapporto.
Se guardiamo entro le nostre vite e consideriamo la relazione, vediamo che si tratta di un processo fatto per costruire una resistenza contro gli altri, di un muro al di sopra del quale osserviamo e guardiamo gli altri.
Ma quel muro lo manteniamo sempre, e restiamo dietro di esso, si tratti di un muro psicologico, di un muro materiale, di un muro economico o di un muro nazionale.
Finché vivremo nell’isolamento, al di là di un muro, non vi sarà rapporto con gli altri; e vivremo rinchiusi, perché ciò è assai più soddisfacente, perché riteniamo che sia di gran lunga più sicuro.
Il mondo ci spezza a tal punto, vi è tanta angoscia, tanto dolore, guerra, distruzione, miseria, che desideriamo evadere, e trincerarci all’interno dei muri di sicurezza della nostra personale psicologia.
Così la relazione per la maggior parte di noi è in realtà un processo di isolamento, e ovviamente tale relazione costruisce una società pur essa isolante.
È esattamente quanto accade in tutto il mondo: si resta in isolamento e si tende la mano di là dal muro, chiamandolo nazionalismo, fraternità o ciò che volete, mentre in concreto i governi sovrani, e gli eserciti, continuano.
Seguitando ad aggrapparsi alle proprie limitazioni, si pensa di poter creare l’unità mondiale, la pace mondiale: il ché è impossibile. Finché vi sarà una frontiera, sia essa nazionale, economica, religiosa, o sociale, è ovvio che non potrà esservi pace nel mondo.
Il processo dell’isolamento fa parte del processo del perseguimento del potere; lo si persegua individualmente o in nome di un gruppo razziale o nazionale, l’isolamento è inevitabile, perché il desiderio stesso di potere, il desiderio di acquisire posizioni, è separatismo.
Dopo tutto è ciò che ciascuno di noi vuole, non è così ? 
Ciascuno vuole una posizione di potenza dalla quale dominare, sia in casa propria, sia in ufficio, sia in un regime burocratico. Tutti cercano il potere, e cercandolo fondano una società che si basa sul potere, militare, industriale, economico e così via:  il che è, pur esso, ovvio.
Non è forse isolante, per sua stessa natura, il desiderio di potere?
A me pare di estrema importanza intendere questo punto, poiché chi miri alla pace del mondo, chi persegua un mondo nel quale non vi siano guerre, non vi sia spaventosa distruzione, non vi sia più miseria catastrofica a scala incommensurabile, deve comprendere questo problema fondamentale: non sembra anche a voi ?
Chi prova affetto e gentilezza non ha alcun senso di potere; e pertanto un uomo di questo tipo non è legato ad alcun nazionalismo, a nessuna bandiera. Non ha bandiere. La vita in isolamento non esiste: non vi è un paese, non vi è popolo, non vi è individuo che possa vivere isolato; eppure, poiché si cerca il potere in tanti modi diversi, si alimenta l’isolamento.
Il nazionalista è una vera maledizione perché, proprio a causa del suo spirito nazionalistico e patriottico, crea un muro di isolamento. Si identifica a tal punto con il proprio paese, da costruire un muro contro un altro paese.
Che cosa accade quando si costruisce un muro contro qualche cosa ?  Accade che quella cosa batte continuamente al vostro muro.
Quando si resiste a qualcosa, la stessa resistenza dimostra che ci si trova in conflitto con l’altro. Perciò il nazionalismo, che è un processo di isolamento, derivante dal perseguimento del potere non potrà portare al mondo la pace.
Chi sia nazionalista e parli di fraternità mente; vive in contraddizione.
Si può vivere al mondo senza desiderare il potere, senza voler attingere una posizione di autorità ? 
Senza dubbio, si può. E lo si fa quando non ci si identifica con qualche cosa di più grande. Quest’identificazione con qualcosa di più grande di noi – un partito, un paese, una razza, una religione, Dio – è perseguimento del potere. Poiché, se in voi stessi sarete vuoti, sordi, deboli, vi piacerà identificarvi con qualcosa di più grande di voi; e tale desiderio di identificazione equivale al desiderio di potere.
La relazione è un processo di auto-rivelazione, e, se non si conosce se stessi, i modi del proprio cuore e della propria mente, avrà ben poco significato la fondazione di un ordine esteriore, di un sistema, di una forma intelligente.
Ciò che importa è comprendere se stessi in relazione con gli altri.
Allora la relazione diventa non un processo di isolamento, ma un movimento nel quale si scoprono i propri stessi motivi, i propri pensieri, le proprie tendenze; e questa scoperta in se stessa è l’inizio della liberazione, l’inizio della trasformazione.

Testo tratto dal libro " La prima ed ultima libertà"


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1954 Krishnamurti Writings, inc., Ojai , U.S.A.
1969 Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, Roma

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